«Ornella? Buonasera, sono io, la signora…». Il video che circolava fin dai primi giorni della clausura racconta della signora bionda dall’eloquio forbito che, confinata in casa e costretta a provvedere alle mansioni domestiche, chiede soccorso alla colf: il ferro da stiro si impugna con la punta davanti o con la punta dietro? Ornella, risentita, tronca la telefonata. Questa è la finzione, non molto diversa dalla realtà degli appartamenti chiusi per pandemia: lavare pavimenti, piatti, pentole, biancheria, spolverare, stirare, cucire bottoni. Nelle famiglie italiane è fuori discussione che i maschi ne siano capaci (salvo poche lodevoli eccezioni), e le signore abbienti, plurilaureate, impegnate, si occupano d’altro o hanno dimenticato come si fa. Provvede la colf, che però è confinata anche lei, inarrivabile.
Il video del ferro da stiro suscita qualche ipotesi sugli stili di vita dopo la pandemia: se qualcuno, ad esempio la signora bionda, avrà voglia di imparare dall’esperienza, le conseguenze della clausura saranno democratiche e non si dirà più “la mia filippina” ma “la signora Maria”, con il rispetto dovuto a chi non si distingue soltanto per nazionalità e possiede invece una personalità e un sapere prezioso; forse i maschi di casa, grandi e piccini, valuteranno, anche loro, con maggiore rispetto le fatiche domestiche; forse si accorceranno le differenze tra le categorie, forse si affermerà una convivenza più paritaria.
Questo è un auspicio, ma la realtà tende in un’altra direzione. Per adesso gli stili di vita sembrano usciti sbriciolati dalla pandemia, ognuno fa fronte alla meglio. Il motivo dominante è il disorientamento, seguito dalla paura e accompagnato dall’incertezza su come ci comporteremo tra cinque minuti, domani, tra un anno, in casa, al lavoro, con i nostri simili, con la natura. Un buon rapporto con i vicini – a parte i conviventi, unici a vederci ogni giorno a viso scoperto – sembra prezioso, come si legge nella newsletter Donnein, perché cura la separazione dal resto degli umani, che è fonte di angoscia. Fare la spesa per gli altri, o farsi fare la spesa da altri, scambiare consigli sui gerani e sul basilico, suggerire un menu da clausura crea un legame di solidarietà che è quasi un’amicizia.
Chi è rimasto davvero isolato, senza compagni o amici, è diventato preda della “sindrome della capanna” e non vuole più uscirne. Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi italiani rivela che otto persone su dieci dichiarano di avere bisogno di aiuto per sopportare il trauma, mentre l’Istituto Mario Negri afferma che quasi la metà della popolazione soffre di qualche disturbo emotivo. Può essere il segno di un’evoluzione culturale se fino a una decina di anni fa gli italiani in difficoltà si rivolgevano di preferenza al sacerdote, che è attrezzato a dare speranza nell’aldilà piuttosto che strumenti per il qui e subito. È anche il segno che perfino chi è scampato al virus ne porta in molti modi le conseguenze.
L’auspicio di parità resta tale, l’osservazione della realtà punta verso un’accentuazione delle differenze. I più fortunati, gli abbienti e i colti, trovano soluzione nelle risorse interiori: leggere “Guerra e pace” o “Se questo è un uomo” aiuta a ricordare che i nostri avi sono usciti da esperienze peggiori, e dà coraggio; ascoltare Beethoven o visitare un museo virtuale trasmette il senso della bellezza, e conforta; un’infarinatura di sapere scientifico conferma che l’umanità ha debellato la peste, il vaiolo, la poliomielite e che gli scienziati – al di là delle prestazioni esibizionistiche di alcuni – non sono stregoni ma gente come noi, che lavora per uno scopo, magari con onestà e mente aperta; una casa in campagna offre un diversivo comodo e ristoratore.
Tra le risorse interiori, l’ironia si è rivelata un’amica preziosa: chi non ha fatto conversazione con il gatto, chi non ha parlato con la lavastoviglie, chi non ha risposto a voce alta al politico in video? Per favore, in caso di estremo disagio da confinamento, si legge in un post francese, non chiamate subito il vostro psicoterapeuta. A meno che la lavastoviglie non vi risponda. Far parlare il “bambino interiore”, dicono ancora gli psicologi, costituisce una risorsa: quel bambino sta dentro di noi con fantasia e libertà, ispirando soluzioni inventive.
Quanti escono dalla pandemia con eleganza e consapevolezza? Quanti invece guardano al futuro dominati dalla paura e dal rancore? Peggio di tutto è la paura che ci prefigura poveri, alle prese con le bollette e l’affitto, incapaci di pagare un mutuo o una vacanza, l’università e l’automobile. Non ci si dorme la notte, quando compare in sogno il misero saldo del conto corrente; e allora i meno giovani ricordano la mamma che non sprecava uno spillo, allungava gli orli, recuperava gli avanzi di cibo e metteva le monete nel salvadanaio. Speravamo tutti di essere entrati in un’era sicura e prospera, ma bisogna ricominciare a tirare la cinghia, e questo genera il rancore. Nella vendita di alimentari al dettaglio sono già calate le proteine più costose, come la carne, e sono salite quelle meno care, come le uova e i legumi. Il nuovo stile di vita ci vedrà forse più snelli, tanto più che la palestra è una delle spese da tagliare al più presto.
La pandemia spinge alla parsimonia anche per un’altra ragione. Abbiamo assaporato durante la clausura la gioia di vedere il merlo sul davanzale, il cielo terso di una primavera secca e soleggiata, perfino i cerbiatti a passeggiare sulla strada asfaltata. Proteggere l’ambiente è proteggere noi stessi anche dal Covid19, un virus che, come predica da tempo la naturalista Jane Goodall, è scaturito da due fattori: la distruzione della vita selvaggia e il dilagare degli allevamenti. Il rispetto dell’ambiente e l’amore per la natura saranno il nostro undicesimo comandamento? Non tutti hanno voglia e strumenti per capire come il virus sia generato da una catena di distorsioni perverse tra la natura selvaggia e il mondo artificiale, più facile credere che sia una cospirazione che batte bandiera cinese.
Le giornate, una dopo l’altra, sono già cambiate: chi lavora a casa ha orari illimitati, non affolla i mezzi pubblici, non indossa il business attire, giacca e cravatta, condivide i metri quadrati di casa, consuma la propria energia elettrica, non chiacchiera nella pausa caffè. È un cambiamento epocale: lo spazio di lavoro e di vita che dalla rivoluzione industriale in poi si erano separati, ora sono ricongiunti.
Se la signora bionda del ferro da stiro, se il lettore di “Se questo è un uomo” e se il neo vegetariano hanno capito e imparato dalla clausura, perché provvisti di biblioteca, abbonati a Netflix e al New York Times, carta di credito per acquisti online, gli aperitivi con gli amici a distanza, c’è chi invece no. Non per colpa sua, ma per colpa delle disuguaglianze già gravi prima della pandemia. Il virus non è affatto democratico, ha colpito i più deboli e le sue conseguenze fortemente classiste continueranno a farlo. Nel sud d’Italia, afferma l’Istat, quattro bambini su dieci vivono in sovraffollamento e un quinto delle famiglie italiane non accede a internet. Significa che troppi bambini, privi di esperienza digitale, hanno perduto quasi un anno di scuola. Non è mancata loro soltanto l’istruzione, ma la socialità, la buona educazione, insomma tutta la dotazione per avviarsi all’età adulta con serenità e forza d’animo.
Lo stile di vita di chi ha passato un paio di mesi in pochi metri quadrati, senza internet, con pochi soldi, privo di libri e con la sola compagnia dei rissosi talk show serali non può che essere precipitato nell’ira e nel pregiudizio. Raggomitolati su sé stessi, dipendenti dalle invettive che circolano su Whatsapp, i meno dotati e senza altra via d’uscita finiranno per avvelenarsi. E andranno in qualsiasi piazza dove sia possibile sfogare il risentimento o l’energia compressa tra quattro mura. Si accoderanno gioiosi a uno stile di vita autocratico, alla volontà del capo. Lo stile di vita dopo la pandemia – e questa è una delle previsioni più facili – sarà fortemente diviso tra i ricchi di mezzi e di spirito critico e i poveri sofferenti e imbottiti di pregiudizi. Per esserne certi non abbiamo bisogno di aspettare un prossimo rapporto Onu o un allarme della Caritas e neppure stare a guardare se quel 13 per cento di italiani che approva le prodezze di Pappalardo, il generale arancione, salga di pochi o di molti punti. Quindi lo stile di vita più virtuoso impone di mantenere la calma, i nervi saldi, la mente aperta, comprimendo la paura e allontanando il rancore.