Ci sono danni incalcolabili che la pandemia ha causato. I baci non dati, gli amori non sbocciati, gli addii sospesi, i matrimoni rinviati, le passeggiate mancate, gli abbracci vietati, gli incontri resi impossibili, i sorrisi impediti, le procreazioni negate. I concerti e i viaggi cancellati, le mostre annullate, le commedie e i drammi non recitati, le opere liriche non cantate. I pranzi e le cene in compagnia non consumati. Insomma, tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta, come avrebbe detto Bob Kennedy. Potremmo aggiungere le pene a questa contabilità di non-gesti portatori di gioia. Come le ansie per la deprivazione materiale subita da centinaia di milioni di persone che sono cadute sotto la soglia della povertà assoluta.
Sono danni incalcolabili perché hanno un valore inestimabile in sé. E perché non sono misurabili statisticamente, come gli economisti ben sanno da quando hanno iniziato a scornarsi, più o meno un secolo e mezzo fa, nel tentativo di quantificare l’utilità. E di recente perfino la felicità. Con risultati che potremmo definire work in progress (dalla Felicità Interna Lorda che il Buthan usa al posto del PIL dagli 70 agli indicatori BES calcolati in Italia dall’Istat).
Ne valeva la pena? Ne vale la pena? Una domanda che ci siamo posti quasi un anno fa, su FIRSTonline, qui e qui. Rispondendo positivamente sulla base della consapevolezza di quel che sarebbe accaduto, in termini di perdita di vite umane, se non si fossero presi i provvedimenti restrittivi. Ora è difficile dire se valgono più le vite umane o le belle emozioni proibite. O meglio, torniamo nella sfera dell’incommensurabile. Qualcuno direbbe: meglio un giorno da leoni che cent’anni da pecora (lo perdonino gli umili e mirabili ovini).
Torneremmo diritti al superomismo dannunziano, di cui non sentiamo alcuna nostalgia. Aggiungiamo che ci fanno ribrezzo quanti abbiamo sentito pronunciare frasi come: «tanto doveva morire di tumore», «era già ammalata»,«al più avrebbe vissuto sei o dodici mesi». Nessuno ha osato dire: «era vecchia/o». Ma quanti lo avranno pensato! Allora perché non fissiamo direttamente per legge il principio che non si deve vivere oltre una certa età?
Alessandro Baricco ora si pone la stessa domanda: ne vale la pena? Un intellettuale colto, intelligente e raffinato. Ancora non ci ha dato la sua risposta, avviando invece una riflessione su Il Post. Una riflessione a puntate, come un tempo si faceva con i feuilleton, i romanzi che uscivano capitolo per capitolo sui quotidiani, per tenere su le vendite (oggi si abbinano libri interi, con un sovrapprezzo; vecchie edizioni, mentre quelle erano inediti).
Parentesi. Il genere feuilleton nasce agli inizi dell’800 e in questo modo si guadagnarono da vivere, tra gli altri, Balzac (La signorina Cormon), Flaubert (Madame Bovary), Alexandre Dumas padre (La contessa di Salisbury, I tre moschettieri e Il Conte di Monte Cristo), Dickens (David Copperfield), Stevenson (La freccia nera), Wells (La guerra dei mondi), Joyce (Finnegans Wake e Ulisse), Salgari (tutte le avventure di Sandokan), Collodi (Pinocchio), Dostoevskij (Delitto e castigo e I fratelli Karamazov), Tolstoj (Guerra e pace e Anna Karenina), Verne (Ventimila leghe sotto i mari), Conrad (Cuore di tenebra), Scott Fitzgerlad (Tenera è la notte), Capote (A sangue freddo). Auguriamo a Baricco analogo imperituro successo.
Dunque, il Nostro non tira subito le fila. Se no chi andrebbe a leggere le puntate successive. Ma il titolo del suo feuilleton, Mai più, e alcune sue tesi fanno facilmente capire dove finirà per andare a parare. Scrive, infatti: «E di questa altra morte quando parliamo? La morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste». Si riferisce alla rinuncia a vivere pienamente, come si diceva all’inizio.
Fin qui nulla di nuovo. Interessante è la causa, scoperta da Baricco, di questa morte vivente: «Un deficit di intelligenza» che risiede nelle élite, capaci secondo lui di seguire solo la logica del non c’è alternativa (usa l’acronimo inglese, tanto amato da Margaret Thatcher: TINA, there is no alternative) . Una logica che ha portato, dice Baricco, perfino alle Guerre mondiali (sic!).
Tutti quelli che ci governano sarebbero affetti da tale deficienza di pensare diverso («Famolo strano», direbbe Verdone). Anche Draghi, unico a essere nominato (Super Mario può così aggiungere questo onore ai molti già ricevuti e che riceverà). Che dell’élite è rappresentante perfetto, in quanto ex banchiere centrale. Bene, ma perché occuparsi di Baricco e del suo feuilleton? Per tre ragioni che egli fa finta di ignorare (essendo colto e senza deficit non può realmente ignorarle). Prima e più banale si può racchiudere in una domanda: perché un perfetto rappresentante delle élite si scaglia contro i suoi pari? Il sospetto è che lo faccia per attirare le simpatie di molti lettori, e per uscire dal coro dell’élite stessa (ricorda una famosa scena di Ecce bombo, il primo e memorabile film di Nanni Moretti, incentrata sul rovello: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?»).
Seconda. Davvero non c’erano alternative? Le alternative c’erano eccome. Basta guardare cosa hanno fatto agli antipodi: in Nuova Zelanda lockdown totale con poche decine di casi, oltre a una vigilanza severa sul rispetto delle norme e grande cura nel gestire gli arrivi dall’estero. Così hanno potuto stare chiusi per poco tempo e poi tornare a vivere pienamente. Perché da noi non è stato fatto? Colpa delle élite o di noi tutti che non avremmo accettato mai tali misure restrittive in assenza di una chiara prova di emergenza? Dov’era Baricco quando si prendevano tali decisioni, o non decisioni? Chiuse subito la sua valida scuola torinese di scrittura, dando il buon esempio?
Terza e più importante ragione. Abbiamo rinunciato a vivere per non morire, dice Baricco. Ecco, qui il dissenso non potrebbe essere più totale. Avremo anche noi un deficit di intelligenza, ma ci pare che abbiamo vissuto diversamente e talvolta più intensamente. Abbiamo riscoperto valori che a pochi eletti (quella sì una vera élite) sono sempre stati chiari: solidarietà, altruismo, fratellanza, gioia di un sorriso con gli occhi, ingegno nell’inventare nuovi modi di esercitare l’arte (concerti, video). Eppoi: il silenzio, la bellezza delle città italiane quando non sono congestionate dai traffici di noi umani («trappole» le chiama Montale), l’importanza della salute (quando non ce l’hai sono guai), e la tutela dell’ambiente, che sta andando verso la distruzione causa deficit di intelligenza collettiva (altro che élite). E via elencando.
Sia ben chiaro: sento nel profondo e con commozione la perdita di quel che non è stato. Ma non per questo non vedo ciò che è stato. E che sarebbe bene che continuassimo ad averlo ben presente nei nostri pensieri e nei nostri cuori. Altrimenti sì che sarebbe stato uno spreco di vita, di tempo e di energia vitale. Possiamo, infatti, osare affermare che la vita, nel suo ultimo significato, sia racchiudibile in una formula simile (si parva licet) a quella magica di Einstein: e=mc². V=T*E. T è il tempo. Non solo quello oggettivo, ma anche quello soggettivo, magistralmente raccontato nella Montagna incantata di Thomas Mann. E è l’energia, non tanto fisica quanto essenzialmente mentale, fatta di intelletto e soprattutto anima (come sede immaginaria delle emozioni). Sono le due risorse scarse di cui disponiamo.
Anche nell’anno della pandemia le abbiamo impegnate. Abbiamo vissuto. Con intensità e modalità totalmente inusuali. Ma non mai invano.
Condivido e apprezzo!….sempre bravo a demolire pericolosi stereotipi sia economici che, in questo caso, letterari….un saluto gabriella bettiol
Grazie mille Gabriella! Che la bellezza sia con te
Non conosco Baricco: ho amato profondamente la fantasia creativa di alcuni suoi libri (su tutti, “Oceano mare”) e altrettanto molto ho disprezzato l’arido intellettualismo di “The Game”.
Il suo recente scritto sul “Post” mi ha conquistato: prescindo da come si svilupperanno le successive puntate… mi interessano più le domande che le risposte e, per quanto la mia esperienza di vita sia profondamente diversa dalla sua (per quel che ne so), posso dire che la sua domanda di fondo mi appartiene nel profondo e mi stimola nel pensare e nel sentire.
Non conosco neppure lei, sig. Paolazzi e posso immaginare che anche la sua esperienza di vita sia profondamente diversa dalla mia.
La sua replica alla “domanda” di Baricco non mi appartiene, ma stimola in me la curiosità di riuscire a comprendere (anziché giudicare, come istintivamente siamo un po’ tutti abituati a fare) un pensare che sento così distante dal mio.
Prescindo dalla “consapevolezza di quel che sarebbe accaduto… se…” perché mi sembra evidente che quella consapevolezza (quella dei… “se”…) non può appartenere a nessun essere umano (il suo esempio della Nuova Zelanda può essere semplicemente equilibrato dai molti esempi di “cure domiciliari” testimoniate da medici di base nostrani e diffusamente praticate ad es. alle Mauritius).
Ciò che invece mi incuriosisce è la sua personale esperienza, il suo vissuto non in relazione al ruolo che ricopre bensì semplicemente alla sua realtà di essere umano.
Perché l’esperienza da me vissuta nel corso dell’anno trascorso mi rende difficile comprendere le sue affermazioni in merito all’esperienza di aver “vissuto diversamente e talvolta più intensamente valori… solidarietà, altruismo, fratellanza, gioia di un sorriso…” e più ancora rispetto a “l’importanza della salute”.
Condivido pienamente quei valori, ma la mia esperienza è che la loro realizzazione sia stata “intralciata” e non certo resa possibile.
Mi scuso per la lunghezza e concludo concordando parzialmente con la sua critica rispetto al ”deficit di intelligenza” o, direi meglio, “della capacità di pensare”: parzialmente perché, pur condividendo il pensiero di Baricco sul “deficit”, ritengo che non sia prerogativa delle élite ma appartenga purtroppo a gran parte del genere umano.
Paolo Indemini
Gentile Signor Indemini,
La ringrazio moltissimo per questo commento. Critico ma molto garbato. Se vuole può contattarmi: le racconterò la mia esperienza di vita vissuta. Le scrivo al più presto. Le auguro bellezza a tutto tondo e in ogni sfera esistenziale.
Luca Paolazzi
Che articolone che fate per cavalcare l’onda. Ma pensate a persone che vivono da sole, per esempio. Riuscite ad immedesimarvi? Probabilmente no, perché è molto simile a vivere in un carcere, magari più in stile svedese, ma pur sempre un carcere.
Gentile Paolo,
non so cavalcare le onde. Piuttosto mi diverto ad andare controcorrente. Si fa più fatica e spesso si beve molta acqua. Ma non so perché mi dà più gusto. Fuor di metafora, mi piace pensare con la mia testa. Magari sbagliando. E pagando prezzi alti. Non so se ha mai visto Cirano recitato da Depardieu. Mi riconosco nella scena in cui lui ripete più volte No, grazie. Le persone sole, dice. Ne conosco più di una. Ma la solitudine non è una malattia. E stare chiusi in casa per evitare che tante più persone muoiano (ha idea di quante morti abbiamo evitato?) non è in nessun modo paragonabile a un carcere. Sostenerlo è un’offesa per i carcerati. Glielo assicuro.
Con stima e riconoscenza per la franchezza
Luca
Grazie a Luca Paolazzi. Concordo pienamente.
Grazie a lei, Marzia! Che la bellezza sia con te