Ben 400mila italiani hanno perso il lavoro fra marzo e aprile, mentre il numero degli occupati è sceso sotto la soglia dei 23 milioni e gli inattivi (cioè chi è scoraggiato a cercare un nuovo lavoro nelle attuali condizioni) sono aumentati di 750mila unità. Questi i dati resi noti dall’Istat, che fotografa i drammatici effetti della crisi da Covid-19 sul mercato del lavoro.
A fine maggio, nelle sue Considerazioni finali, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, aveva messo in evidenza il rischio di una crescita delle disuguaglianze come conseguenza della pandemia. Eccone una prima conferma. Dalla lettura della Relazione Annuale della Banca d’Italia, emerge come già prima dell’emergenza sanitaria le famiglie che erano collocate nel quinto più basso della distribuzione del reddito avevano subito una riduzione di entrate due volte più ampia di quelle appartenenti al quinto più elevato.
UNA TENDENZA IN ATTO DA TEMPO
Le disuguaglianze si manifestano con un divario crescente dei redditi e una concentrazione delle ricchezze su una quota sempre minore della popolazione. L’indice di Gini, utilizzato per misurare questo fenomeno, mostra come, nei paesi occidentali, dopo una tendenza alla perequazione dei redditi avvenuta nei decenni del boom economico, le disparità sono tornate a crescere sino a toccare i livelli di inizi del 900 in conseguenza delle crisi del 2008 e del 2012. Oggi però, gli effetti del Covid 19 stanno accelerando l’allargamento del divario fino al punto di rischiare di renderlo insostenibile.
Nonostante l’inattesa crescita dell’occupazione appena annunciata (ma concentrata in quei settori che erano stati temporaneamente chiusi per lockdown, come ristoranti, bar, lavanderie), negli Usa milioni di cittadini si sono iscritti alle liste di disoccupazione. In un articolo del New Yorker di alcune settimane fa si riportava che il 40% degli americani non raggiunge i 400 dollari di risparmi per far fronte alle emergenze e che per gli occupati a basso reddito tre giorni senza lavoro sono sufficienti per privarli dei mezzi per acquistare i generi alimentari necessari alle loro famiglie.
IL DIVARIO NON È SOLO ECONOMICO, MA ANCHE SOCIALE E SANITARIO
Ad oggi, ad esempio, nel bel mezzo della crisi, non vi è dubbio che i lavoratori a più basso reddito siano quelli costretti a subire i rischi maggiori di contagio per la necessità di lavorare in fabbrica, nei negozi o sulle strade, moltiplicando il numero di contatti e le occasioni di contrarre il virus. Il loro indispensabile ruolo è stato spesso formalmente riconosciuto, sebbene la realtà produca esiti tra loro discordanti. Mentre con il decreto Rilancio, infatti, si è portato a casa il riconoscimento dei lavoratori migranti, il Tribunale di Milano ha disposto il commissariamento della filiale italiana di Uber per il sospetto di sfruttamento dei rider che fanno consegne a domicilio.
Disparità e ingiustizie tendono di solito ad esacerbarsi nei momenti di choc, siano essi economici, sanitari o, come nella situazione attuale, entrambi. Sempre dagli Usa giungono bollettini di guerra sconfortanti. Agli inizi della pandemia, Bloomberg titolava: “Covid 19 sta diventando la malattia che ci divide per razza, per classe sociale e per età”. Più recentemente il New York Times riportava i risultati di un’indagine secondo cui il 52% dei lavoratori a basso reddito dichiarava che loro stessi o un componente della famiglia aveva perso il lavoro o subito un taglio al salario a causa del Coronavirus. Questa percentuale è del 44% nel caso di lavoratori a basso reddito di origine africana e del 61% per gli ispanici, contro un 38% dei bianchi americani.
Studi sulle pandemie dei secoli scorsi hanno mostrato un incremento sul lungo termine dei salari delle categorie più deboli. Dobbiamo tuttavia tener conto che ciò avvenne, nella gran maggioranza, a causa del tragico livello di mortalità di quegli eventi e della conseguente scarsità di offerta per lo svolgimento di lavori servili. Oggi, paradossalmente, in un contesto per fortuna migliore da un punto di vista sanitario, c’è da attendersi un peggioramento delle condizioni economiche e sociali. Tanto più che in Europa, come negli Usa, si stenta a individuare un partito o un sindacato capaci di proteggere questa grande e anonima platea di lavoratori poveri e silenziosi, per via delle condizioni di frammentazione e isolamento estremo in cui molte loro categorie si trovano ad operare.
NEL FRATTEMPO, COSA STA ACCADENDO ALLA CLASSE MEDIA?
Grazie alle maggiori possibilità di distanziamento sociale garantite dallo smart working, la classe media appare al momento privilegiata. Almeno dal punto di vista sanitario. E per il resto? Questo strato sociale si sta restringendo in tutti i paesi occidentali, come effetto congiunto della competizione globale, dell’innovazione tecnologica e del minor potere contrattuale in un mondo costituito da monopoli digitali che sovrastano i confini e le regole nazionali.
Siamo orami lontani dall’epoca dello sviluppo post-bellico che determinò la crescita di una classe media vitale, secondo un circolo virtuoso che, partendo dalla produzione su larga scala e dalla nascita delle grandi corporation, creò maggiore occupazione, salari più elevati e grazie ad essi lo sviluppo dei consumi di massa.
Oggi, stima l’Oecd, c’è un gap di almeno 10 punti percentuali, in termini di appartenenza alla classe media, tra i vecchi baby boomer e gli attuali millennial e questi ultimi corrono il rischio costante di uscirne.
RIORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E OCCUPAZIONE IMPIEGATIZIA
Lo smart working che ha favorito il distanziamento ha dato l’avvio a un processo di riorganizzazione del lavoro impiegatizio. Anche le aziende più riottose nell’adottarlo hanno scoperto che funziona e che diventa ancora più produttivo se ad esso si coniuga l’impiego di piattaforme tecnologiche già sperimentate: da quelle che gestiscono le procedure di back office a quelle di CRM, all’assistenza da remoto, tramite intelligenza artificiale, per i clienti e per le attività post-vendita.
Si accelerano così investimenti sinora rinviati, per creare nel più breve tempo possibile un nuovo e più efficiente modo di lavorare. Qualcosa che assomiglia a quanto avvenuto con l’avvento dei mainframe negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, con la distruzione di buona parte dei tradizionali clerical works.
Solo che oggi tutto sta accadendo in modo assai più rapido e verosimilmente porterà alla scomparsa di molte occupazioni impiegatizie, anche di livello medio – alto, che nelle strutture organizzative precedenti il Coronavirus avevano una loro ragione di esistere.
Nei prossimi mesi, dunque, indipendentemente dall’andamento della pandemia, è possibile attendersi grandi trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, che colpiranno in particolare gli occupati della classe media.
DISUGUAGLIANZE E RISCHI PER L’ECONOMIA
Gli effetti di questi fenomeni sull’economia sono evidenti: peggioreranno i dati sull’occupazione, in particolare nelle fasce dei lavoratori più anziani e di più difficile ricollocazione e tra i giovani non laureati e con più bassa qualificazione.
Ciò porterà, inevitabilmente, a un’ulteriore contrazione della domanda interna, oggi debole per l’effetto della già elevata disoccupazione e di una maggiore preoccupazione per gli effetti futuri della pandemia, che induce ad incrementare i risparmi, per coloro che possono permetterselo.
Il segnale di preoccupazione del Governatore Visco deve essere dunque colto con attenzione. Le tendenze in atto non possono essere contrastate con interventi tampone, ma richiedono la messa a punto di programmi a lungo termine, finalizzati a intervenire in modo strutturale sul mercato del lavoro come pure sulle politiche industriali e di investimento, allo scopo di combinare crescita e impiego di risorse.
Qualsiasi obiettivo macroeconomico finalizzato alla ripresa e alla diminuzione del debito pubblico ha bisogno di minori disuguaglianze per potersi avverare.
°°°°°° Fabio Menghini è l’autore del libro “La stagnazione secolare. Ipotesi a confronto” edito da goWare