Ripartire in sicurezza, il grande dilemma delle imprese. Da un lato è necessario proteggere rigorosamente i dipendenti dal rischio contagio (che a seconda delle attività e delle categorie è molto diverso), dall’altro i datori di lavoro potrebbero trovarsi di fronte a responsabilità civili e penali. Il Decreto Cura Italia ha aperto le polemiche, prevedendo all’art. 42 l’equiparazione del contagio con l’infortunio sul lavoro: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”.
L’Inail stessa ha però precisato, con la circolare n.22, che “le patologie infettive da sempre inquadrate come infortunio sul lavoro” e, come ha spiegato anche il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, “il mero riconoscimento dell’infortunio sul lavoro non agevola in alcun modo l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, né crea una presunzione in tal senso. L’interpretazione secondo la quale la norma avrebbe aggravato la posizione dei datori, esponendoli maggiormente al rischio di essere ritenuti responsabili per i contagi contratti dal lavoratore in ambiente lavorativo, non è corretta”.
Insomma per le imprese che rispettano i protocolli di sicurezza, adottati di concerto con i sindacati nel rispetto delle linee guida istituzionali, non ci dovrebbero essere rischi particolari, soprattutto alla luce di un emendamento concordato ieri dalla maggioranza al decreto Rilancio . Tuttavia permangono nella questione alcune zone d’ombra (al punto che le denunce per contagio sul posto di lavoro sono già 43 mila, di cui 171 per infortunio mortale e che la ministra Catalfo ha annunciato una norma ad hoc), e per vederci più chiaro abbiamo chiesto il parere a Emanuele Panattoni, partner dello studio legale Gianni Origoni Grippo Cappelli & Partners, che collabora con International SOS, la quale ha messo a punto una procedura con le azioni più opportune per evitare di incorrere nei rischi del duty of care.
Avvocato, l’intervento dell’Inail può dunque rassicurare il mondo imprenditoriale?
“Le circolari Inail 13 e 22 del 2020 sono indicazioni operative, che in realtà non dicono molto di nuovo sotto un profilo più squisitamente legale. L’Inail non ha fatto altro che chiarire in quali casi si presuma che il contagio da COVID-19 avvenga sul luogo di lavoro (es. operatori sanitari e personale a contatto con il pubblico), precisando che questo non possa comportare una responsabilità oggettiva del datore, che rimane dolosa o colposa. E se i datori di lavoro rispetteranno i protocolli, non incorreranno in responsabilità civili o penali. Il punto piuttosto è un altro”.
Quale?
“Che servono protocolli più chiari. Sarebbe dunque auspicabile un intervento del Parlamento e del Governo non tanto per creare uno scudo penale che non ritengo ipotizzabile, né per chiarire – come pare preveda una delle norme attualmente allo studio – che il rispetto dei protocolli sia sufficiente a garantire il rispetto dell’art. 2087 codice civile, norma cardine in materia di salute e sicurezza sul lavoro, quanto per predisporre protocolli più semplici e più precisi. Soprattutto più brevi. Il problema è anche che queste norme sono troppe e troppo corpose, il che lascia un margine interpretativo dove si rischia che rientri dalla finestra ciò che si voleva tenere fuori dalla porta”.
Può fare un esempio ?
“Un caso di scuola in questo periodo è quello del commercio al dettaglio, che è improvvisamente passato da un rischio infortunistico molto basso, rispetto a quello dell’industria, ad un rischio molto elevato, soprattutto per gli addetti alla vendita. Nelle ultime linee guida allegate al DPCM 17 maggio 2020, non è indicato chiaramente, per esempio, come calcolare il numero massimo di clienti che possono entrare negli esercizi commerciali; in particolare per gli spazi superiori ai 40 mq non c’è un criterio preciso, si lascia il datore di lavoro in una posizione di incertezza sullo standard di diligenza da adottare e, quindi, sulla sua eventuale responsabilità. Come si potrà dimostrare che i clienti non erano troppi e che quindi si sono rispettate le regole di diligenza per evitare il contagio sul posto di lavoro?”.
Il settore più a rischio è quello industriale, con gli addetti costretti a lavorare in spazi chiusi e spesso a stretto contatto. Che consigli darebbe alle imprese?
“Di fare tre cose: adottare protocolli chiari, seguendo le linee guida del Governo, concordandoli con i sindacati e aggiornandoli periodicamente; integrarli con il sistema di tutela della salute sul luogo di lavoro (Testo Unico del 2008); integrare il tutto con il modello di organizzazione e controllo derivante dal Dlgs n.231 del 2001, che disciplina le responsabilità amministrative degli enti in relazione a reati penali commessi nel loro interesse. È sempre più decisivo avere un sistema di compliance integrato, anziché una serie di norme e procedure specifiche e slegate tra loro”.
In definitiva, cosa rischiano le imprese allo stato attuale?
“Poco, se rispettano i protocolli. E’ vero che questi presentano delle aree grigie ed è comprensibile la preoccupazione, ma non deve passare un messaggio allarmistico. Bisognerà vedere come si orienterà la giurisprudenza, soprattutto quella penale, ma gli imprenditori che rispettano le regole non hanno nulla (o quasi) da temere”.
Eppure le denunce sono già 43 mila e un’eventuale accertamento delle responsabilità avrebbe effetti devastanti per le aziende.
“Sì. A livello penale si incorrere nei reati di lesioni colpose o, in caso di morte del dipendente in seguito al contagio, di omicidio colposo. Il che significa, rispettivamente, per i casi sul luogo di lavoro, fino a 3 e 7 anni di reclusione. E poi c’è il risarcimento danni, che non sarebbe escluso dalla tutela assicurativa dell’Inail”.