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Covid-19: distanziamento sociale e solidarietà sono conciliabili?

FIRSTonline

Micheal J. Sandel è una celebrità, ma non come i virologi che frequentano tutte le sere i talk show in televisione. Le sue lezioni su YouTube sono seguite da milioni di persone, soprattutto in Cina. Pure il presidente cinese Xi cerca delle risposte ai suoi immensi dilemmi nelle proposizioni di Sandel (tipo: è giusto che un banchiere sia meglio retribuito di un infermerie/a”, oppure “è giusto imbrogliare per arricchirsi?”).

Sandel insegna filosofia morale ad Harvard e i suoi corsi, ossessivamente monotematici, portano la denominazione “Justice”. Infatti la giustizia è il cuore del suo sistema di pensiero. In genere Sandel viene associato a una scuola filosofica conosciuta come comunitarismo, che ha le sue radici nell’utopismo di Thomas More e Tommaso Campanella e negli esperimenti sociali di Charles Fourier, Robert Owen e di altri socialisti utopici. Ma non ha niente a che vedere con il comunismo, anche se Marx contribuisce alla definizione del sistema di pensiero di questa scuola.

Ma Sandel è sui generis anche per altri aspetti del suo lavoro. È un maieutico. Per questo i giovani lo amano. Uno dei suoi corsi è stato seguito da 1.200 studenti, il record assoluto di frequenza per l’Università di Harvard. Si dice che 15mila giovani si siano seduti sui banchi dell’aula ad anfiteatro per ascoltare le lezioni di Sandel. E poi si dice che la filosofia è noiosa nel tempo della distrazione. Beh, chiedete agli allievi di Sandel!

Il suo metodo socratico, diretto e paradossale, nel discutere i grandi temi dell’esistenza, è diventato leggendario. I suoi libri più importanti — Il liberalismo e i limiti della giustizia (1994), Giustizia: il nostro bene comune (2010) e Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato (2013) – sono tradotti in italiano e pubblicati da Feltrinelli. Sandel fa anche moltissima autopubblicazione e si trova a suo agio con i nuovi media.

Recentemente Thomas Friedman, l’opinionista premio Pulitzer del New York Times, lo ha intervistato a proposito della pandemia.

Siamo lieti di offrirvi di seguito la traduzione in italiano dell’intervista dal titolo “Finding the ‘Common Good’ in a Pandemic”.

Cosa intendi per “bene comune”?

«Il bene comune è un principio che riguarda il modo in cui viviamo insieme in una comunità. Si tratta degli obiettivi etici per cui ci battiamo, dei vantaggi e degli oneri che condividiamo, dei sacrifici che facciamo l’uno per l’altro. Si tratta degli insegnamenti reciproci che ci diamo su come condurre una vita buona e dignitosa. Questo è molto distante da ciò che è la politica in questi giorni. Ma il bene comune, come tutti gli ideali etici, è oggetto di grandi discussioni. Il dibattito è sempre aperto è c’è disaccordo».

Beh, se stiamo discutendo su quale possa essere il bene comune, come descriveresti le posizioni in campo sulla pandemia?

«Pensiamo alle due parole d’ordine simboliche della pandemia: “la distanziazione sociale” e “ci siamo dentro tutti insieme”. In tempi normali, questi slogan identificherebbero principi etici contrastanti tra loro – ci dobbiamo distanziare ma dobbiamo anche stare insieme. Per rispondere alla pandemia, abbiamo, in realtà, bisogno di entrambe le cose. Dobbiamo separarci fisicamente dai nostri amici e colleghi di lavoro al fine di proteggere tutta la comunità, per evitare che il virus si diffonda.
Eticamente, però, queste parole d’ordine mettono in evidenza due diversi approcci al bene comune: andare da soli, con ognuno che si difende individualmente, oppure stare insieme, cercare la solidarietà. In una società fortemente individualista come la nostra, non c’è molta solidarietà, se non nei momenti di crisi, come in tempo di guerra. La nostra mancanza di preparazione alla pandemia rivela la mancanza di solidarietà nella nostra vita sociale e politica, specialmente nel nostro inadeguato sistema di sanità pubblica [quello americano] e nella mancanza di un sistema sanitario nazionale universale e di ammortizzatori sociali. Questo rende vuoto l’improvviso e rituale appello al principio “ci siamo tutti insieme”».

Ci sono state molte discussioni, soprattutto in Gran Bretagna, sulla questione dell’”immunità del gregge”, cioè lasciare che il virus si diffonda rapidamente, per curare solo i malati più gravi. Entro un periodo di settimane, però, dicono gli assertori di questa tesi, una massa critica di persone diventerà immune costringendo il virus ad estinguersi perché non avrà più nessuno organismo da infettare. Come vedi le scelte etiche intorno all’immunità del gregge?

«La strategia di affrontare la pandemia permettendo al virus di fare il suo corso il più rapidamente possibile nella speranza di accelerare l’”immunità del gregge” è un approccio spietato che ricorda il darwinismo sociale — l’idea, cioè, della sopravvivenza del più forte. Permette al contagio di mandare al collasso le unità di terapia intensiva degli ospedali e di portare via i più vulnerabili. L’obiettivo di questa tesi è quello far ripartire l’economia il prima possibile. Che è anch’esso un obiettivo importante.
Prevedo che presto avremo molte analisi di costi-benefici che dimostreranno che il valore in denaro di una vita salvata con la distanziazione sociale è troppo alto per sostenere le restrizioni all’economia. Questo approccio, puramente utilitaristico, è lontano dall’ideale di solidarietà, che richiede di mostrare tanta cura e preoccupazione per chi è debole e vulnerabile quanta per chi è forte e importante. Penso, però, che gli esperti di sanità pubblica responsabili delle decisioni abbiano in mente uno scenario diverso e meno atroce».

Sì, quelli di cui ho scritto o che sto seguendo stanno effettivamente proponendo una strategia in tre fasi: 1) Praticare il distacco sociale e la chiusura delle attività per almeno due settimane, in modo che chiunque abbia contratto la malattia possa manifestare i sintomi in quel periodo. Coloro che potranno guarire a casa saranno curati nelle loro abitazioni e separati da partner e conviventi sani e coloro che avranno bisogno di un ricovero ospedaliero, andranno in ospedale. 2) Oltre a questo, ci saranno molti più test, per capire quali regioni e gruppi d’età — quanti giovani, quanti quarantenni ecc. — sono più colpiti. 3) Una volta che avremo abbastanza informazioni, i lavoratori sani e immuni torneranno sul posto di lavoro, o a scuola, gli anziani o i positivi saranno confinati fino a quando non tornerà “tutto a posto”.
Mi sembra che questo approccio sia fondato sul principio di bene comune. È un approccio che tiene di conto che anche il “lavoro” e l’economia sono una questione di salute pubblica. Se ci sono milioni di persone che hanno perso l’azienda costruita in una vita di lavoro o i risparmi che hanno maturato nell’esistenza, avremo un’epidemia di suicidi, disperazione e di dipendenza da oppiacei che farà impallidire le perdite dovute al Covid-19. Il presidente Trump ha detto che “vorrebbe che il Paese ripartisse, e non vede l’ora di andare da qualche parte, per Pasqua”. Apprezzo il desiderio del presidente di far tornare al lavoro quante più persone possibili. Lo vorrei anch’io, ma per arrivarci abbiamo bisogno di piano nazionale di questo tipo — in tre fasi — con vere e proprie metriche sanitarie definite da esperti e confermate da dati.

«Se Trump, per scongiurare la crisi economica, dichiara la vittoria sul virus e rimanda le persone al lavoro prematuramente, allora metterà in atto, di fatto, lo scenario sociale darwinista. Ma è semplicemente irresponsabile lasciare morire i più vulnerabili, in modo che il resto di noi possa contribuire all’economia e alla ripresa del mercato azionario. Lo scenario più umano degli esperti di salute pubblica di cui tu parlavi è ovviamente preferibile.
Ma presuppone proprio quello che purtroppo manca alla nostra società: un modo adeguato per testare tutte le persone e individuare con precisione quelle più a rischio. A quanto pare la Corea del Sud ha praticato molti di più test di massa ed è stata in grado di gestire la pandemia con più successo di quanto abbiamo fatto noi e gli europei — e quindi è stata in grado di rimettere gradualmente al lavoro il suo popolo. Ma questo ci riporta alla nostra mancanza di preparazione in materia di salute pubblica».

Proprio questo è il punto. Dobbiamo fare un compromesso faustiano tra la salute medica e la salute economica?

«No, non necessariamente. Tutto dipende dalla possibilità di iniziare a riorganizzare l’economia in modo da promuovere il bene comune. È chiaro che ciò richiede un’economia che garantisca l’accesso di tutti all’assistenza sanitaria, gli ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori e un sostegno economico a coloro che perdono il lavoro, sia a causa di una pandemia o della tecnologia o di altre circostanze al di fuori del loro controllo. Ecco un’idea: Perché non consideriamo, come condizione far tornare la gente al lavoro, l’estensione delle protezioni sanitarie ed economiche a tutti per i prossimi 18 mesi? Forse questo gesto di solidarietà funzionerà socialmente e potrebbe diventare una misura che varrà la pena di mantenere anche quando il virus se ne andrà così com’è venuto».

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