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Cortina d’Ampezzo celebra il genio di Mario Cavaglieri

Una mostra intrigante dell’estate cortinese celebra Cavaglieri, pittore di raro edonismo, attratto dall’eleganza dei salotti mondani di fin de siècle; si potrebbe quasi affermare che la sua pittura possiede un intrinseco incanto letterario; così alcune stoffe, cappelli, arredi, orologi, resi con opulenza barocca, sembrano affiorare dalle pagine di taluni romanzi dannunziani. Non a caso il suo nome è stato accostato a quello del Vate, entrambi affascinati dalle belle donne e dal lusso, seppur sensibili ai paesaggi ed alla natura. Dal milieu sociale, insomma, di quel mondo agiato e, per certi versi, eccentrico tanto ben descritto da Thomas Mann e da Luchino Visconti.
Donne belle e selvagge, colori ed emozioni forti. Ma anche i silenzi e la dolcezza del paesaggio naturale. Tutto questo è Mario Cavaglieri (1887-1969), un artista che per molti è oggetto di culto e tuttavia “nascosto” ai più.

“Nato nel 1887 a Rovigo, in una doviziosa famiglia della borghesia ebraica, Cavaglieri condivide il destino di quegli artisti socialmente privilegiati che, potendo contare su un vasto patrimonio di famiglia, non devono preoccuparsi di promuovere il proprio lavoro nei circuiti mercantili, appagati dalla benevolenza di studiosi di rango e di raffinati collezionisti. Senza dimenticare che nel 1925, pur continuando a dipingere, si ritirò a vivere in volontaria “clausura” in un’antica tenuta della campagna francese, a Pavie-sur-Gers, in Guascogna, dove morirà nel 1969”. A ricordarlo nel breve ma acuto intervento introduttivo alla mostra cortinese è Ada Masoero. Che annota ancora: “Forse, oltre all’ascesa del fascismo, a indurlo al ritiro in Francia fu la consapevolezza della fine dell’epoca di cui era stato interprete così felice, cantore di quel mondo opulento che nell’alta borghesia europea perpetuò rituali e mode degli anni scintillanti della Belle Époque sino al primo dopoguerra. Oggetto dei suoi dipinti, gli «sguardi» e le «atmosfere» di un mondo lucente e ovattato al tempo stesso, in cui donne elegantissime (come nello splendido Incroyable-L’Aigrette, 1914, o nel non meno fascinoso Fuffi, 1920), disinibite e sicure di sé (Nudo con l’ombrellino, 1926 ca.), abitano interni opulenti e un po’ soffocanti, decorati in stile neo-rococò (Interno veneziano, 1918) o secondo il ricercato gusto orientalista (Estremo Oriente, 1922), oppure ostentano – ma con consumata indifferenza – l’antico lignaggio: come nel seducente L’orologio regalato da Napoleone I, dove Giulietta, composta e raffinatissima, siede di fronte alla pendola donata dall’Empereur al defunto marito, il conte Marazzani Visconti.

Ma ciò che oggi, come allora, accresce il fascino della pittura di Cavaglieri è l’assoluta originalità dello stile: aggiornato su tutte le novità che giungevano dalla Mitteleuropa delle Secessioni, non meno che sulle innovazioni francesi (da Bonnard e Vuillard a Matisse e i Fauves), Cavaglieri diede vita a una pittura personalissima e accattivante, nella quale a una rigorosa linearità si somma l’uso di impasti cromatici sensuali e cremosi, spesso spremuti direttamente sulla tela dal tubetto”.

Mario Cavaglieri nasce a Rovigo nel 1887. A Padova, dove vive tra il 1900 e il 1917, frequenta lo studio di Giovanni Vianello, conoscendovi Felice Casorati. Non ancora ventenne, nel 1907, è presente alla mostra Società Amatori e Cultori di Belle Arti di Roma e, due anni più tardi, a Ca’ Pesaro, dove esporrà assiduamente fino al 1925. In seguito al soggiorno parigino del 1911, partecipa con una certa regolarità alla Biennale di Venezia.
L’intensa attività espositiva del secondo e terzo decennio, che fra l’altro registra la sua presenza a Milano, nelle edizioni della Permanente del 1914 e 1915 e alla Galleria Pesaro nel 1920, è premiata con il successo di critica e pubblico. Tra il 1921, anno del matrimonio con Giulietta Catellini, e il 1925 soggiorna a Piacenza, per poi trasferirsi a Pavie-sur-Gers, in Guascogna, dove trascorrerà, alternando soggiorni in Italia e Francia, il resto della propria esistenza. Nel 1948, 1950 e 1952 partecipa alla Biennale di Venezia.
Il riconoscimento più importante gli viene tributato nel 1953 con un’ampia antologica alla Strozzina di Firenze. Muore a Pavie-sur-Gers il 23 settembre 1969.

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