Il coronavirus in Africa è un gigantesco buco nero di cui il mondo occidentale e l’Europa non si curano granché. A occuparsene è soprattutto la Cina, che in Africa è onnipresente, oltre naturalmente agli eroici volontari delle Ong. Ma, a sorpresa, nuove soluzioni arrivano anche dal mondo dell’hi tech africano, ricco di startup che nascono e si spengono di continuo nei campi più avanzati dell’Information technology. Imprese attive non solo nell’e-commerce e nella finanza (quasi tutti coloro che hanno uno smartphone praticano solo pagamenti digitali), ma anche nella sanità.
L’Oms ha comunicato un improbabile numero di contagiati africani, intorno ai 640, ma a breve il dato potrebbe essere drammaticamente aggiornato. Jumia, l’unica startup africana quotata al Nyse di New York, considerata l’Amazon del continente (anno di fondazione 2013, più di 1 miliardo di euro il fatturato 2019), ha firmato una partnership con l’inglese Reckitt Benckiser per la distribuzione a un prezzo accessibile di prodotti farmaceutici e di igienizzazione come saponi, disinfettanti e prodotti liquidi per le mani. Jumia ha deciso di rinunciare alle sue commissioni proprio per sveltire grazie ai costi bassi l’acquisto e la distribuzione di ingenti quantità di prodotti. Mentre la società inglese si fa carico delle spese di trasporto nei paesi per ora interessati dal progetto, cioè Algeria, Egitto, Ghana, Kenya, Marocco, Nigeria, Africa del Sud e Uganda.
DA ALIBABA DONAZIONI MILIONARIE
Intanto in Asia il fondatore di Alibaba, Jack Ma, il 16 marzo è ritornato in pista uscendo dal ritiro in pensione e tramite la sua fondazione personale sta inviando in Africa 1,1 milioni di kit di rilevamento, 6 milioni di maschere protettive e molte altre forniture. Il tutto arriverà a breve ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, che fa parte di eWTP, la piattaforma di commercio mondiale di Alibaba che distribuirà i prodotti in ben 54 paesi del continente.
Ma quello che stupisce è che molte startup africane che operano nei settori più avanzati stanno mettendo gratuitamente a disposizione di medici, consumatori, governi, società e istituzioni diversi servizi fondamentali, ovvero le linee, i marketplace, i trasporti e qualsiasi utilizzo delle reti di telecomunicazioni per scambi di informazioni e ricerche.
L’incubatore nigeriano Co-Creation Hub intende finanziare con ticket da 5mila a 100mila dollari i progetti destinati a informare ed educare correttamente i consumatori, a potenziare la produzione locale di attrezzatura sanitaria e di prodotti alimentari locali (anziché continuare a importare costosissimi prodotti dall’estero) e a sostenere le persone infettate e i più deboli. Un’iniziativa che si sta allargando anche al di fuori della Nigeria, sollecitando una comunicazione chiara che allontana superstizioni e fake news, ma anche stimolando la struttura produttiva dei paesi africani nell’ambito delle attrezzature sanitarie di primo intervento.
CRESCITA VELOCE DELL’E-COMMERCE
L’e-commerce in Africa sta riuscendo spesso a ottenere fatturati soddisfacenti, poiché in alcuni Paesi la popolazione si è resa conto attraverso internet e i mass media che l’unico rimedio contro il coronavirus è ritirarsi in casa. Founa.com, per esempio, il primo supermercato online della Tunisia, negli ultimi dieci giorni ha quadruplicato gli incassi.
Il vero problema all’origine di qualsiasi programma d’intervento è che le informazioni sui numeri dei contagiati nei 54 Paesi africani sono poco attendibili. È invece possibile indicare, grazie ai calcoli della rivista scientifica The Lancet e dell’Insee (l’Istat francese), quali sono i Paesi più esposti in base ad alcuni parametri oggettivi. Si tratta, paradossalmente, degli Stati più preparati: Algeria, Egitto, e Sudafrica. Questi Paesi hanno da anni il maggior numero di contatti via linee aeree con le province cinesi più colpite dal coronavirus, ma sono anche quelli che presentano, a giudizio dell’Oms, i risultati migliori in termini di Spar e di IDVI.
Il primo acronimo (State Party self-Assessment annual Reporting tool) rappresenta un parametro calcolato sulla base di una dichiarazione annuale obbligatoria che ogni paese deve certificare all’OMS e descrive le capacità delle strutture sanitarie di affrontare un’epidemia virale secondo un indice che va da 1 a 100.
L’Idvi (Infectious Disease Vulnerability Index) riunisce invece i parametri oggettivi sulle infrastrutture della sanità, dalla demografia alla stabilità politica (anche in questo caso il ranking va da 0 a 100).