In seguito al sesto test nucleare effettuato dalla Corea del Nord lo scorso 3 settembre, analisi e commenti si sono concentrati sulle reazioni degli attori coinvolti: anzitutto Stati Uniti, Cina e Russia. In questo clima di tensione, la Corea del Sud dimostra di prendere le distanze dagli allarmismi che tengono banco nella comunità internazionale.
Quando lo scorso maggio gli elettori sudcoreani sono stati chiamati alle urne, in seguito allo scandalo per corruzione dell’ex presidente Park, le politiche liberali e le proposte di dialogo pacifico con la Corea del Nord sono state premiate con la vittoria di Moon Jae-in, il candidato liberale. L’oltre 40% dei consensi ottenuti dimostrano la chiara volontà della popolazione di prediligere un atteggiamento pacifico nella risoluzione delle ostilità che continuano a caratterizzare la penisola coreana.
I recenti sviluppi nucleari, orgogliosamente ostentati dal leader nordcoreano Kim Jong-un, stanno però mettendo a dura prova le iniziali intenzioni diplomatiche di Moon. La Corea del Sud sta, infatti, entrando in una fase in cui le dinamiche di politica nazionale e internazionale sono all’origine di nuove iniziative in termini di difesa e sicurezza.
Moon abbandona la Sunshine Policy 2.0
I lanci missilistici e il recente test nucleare, avvenuti in un arco di soli quattro mesi, hanno certamente cambiato le carte in tavola, e la posizione del presidente Moon non ha tardato ad adattarsi alle nuove circostanze optando per un’inversione di marcia sull’iniziale strategia di riconciliazione – la cosiddetta Sunshine Policy. La Sunshine Policy 2.0 – ovvero la versione aggiornata proposta da Moon della distensione inizialmente perseguita e attuata dai suoi predecessori, anch’essi progressisti, Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun – non ha neanche avuto tempo di essere avviata che è già stata messa da parte per fare spazio a sempre più insistenti richieste di sanzioni per il regime di Pyongyang e di nuovi accordi per un rafforzamento militare di Seul.
È così che l’apparente tranquillità della popolazione sudcoreana si oppone alle richieste di Moon di incrementare fino a 39 miliardi di dollari il budget per la difesa (fino a raggiungere il 2.9% del Pil sudcoreano), di completare l’installazione dello scudo missilistico Thaad, e di avviare la produzione di sottomarini nucleari.
La crisi nucleare non spaventa i cittadini
Fin dall’ultima campagna elettorale, le proposte in ambito economico si sono dimostrate determinanti nell’esito delle elezioni e prioritarie negli interessi dei cittadini. Contrariamente alle aspettative, questo trend è rimasto immutato nonostante le continue provocazioni del regime di Pyongyang.
Camminando per le strade di Seul, emerge una calma apparente nei confronti di ciò che succede a poche centinaia di chilometri da qui, in netta contrapposizione con l’atteggiamento che traspare dagli innumerevoli articoli pubblicati dai quotidiani nazionali e dall’angoscia della comunità internazionale riguardo il futuro della penisola.
Quando sarebbe normale aspettarsi di assistere a conversazioni sui possibili esiti catastrofici di quello che ormai sembra un duello tra Kim Jong-un e Donald Trump, i sudcoreani dimostrano invece di essere più preoccupati per l’attuale tasso di disoccupazione (e per le scorte di provviste in vista delle prossime festività, in occasione delle quali molti negozi saranno chiusi).
Se posti di fronte all’ipotesi di un’eventuale escalation delle tensioni, la risposta che i cittadini sudcoreani preferiscono dare si può facilmente tradurre con un “e allora?”. La prospettiva di nuovi venti di guerra nella penisola coreana non sembra rappresentare una reale preoccupazione nella vita di tutti i giorni dei cittadini sudcoreani, che non hanno intenzione di farsi sottomettere dalla paura di quella che il resto del mondo considera come una crisi che necessita soluzioni immediate, ma a cui a queste latitudini dimostrano di essere abituati.
Si tratta di una reazione che trova le sue ragioni nella storia del Paese. I cittadini della Corea del Sud, infatti, fondano le proprie convinzioni sull’insegnamento dell’esperienza: negli ultimi decenni, Pyongyang si è resa autrice di minacce in fin dei conti finalizzate ad attirare l’attenzione delle potenze internazionali e a soddisfare gli interessi momentanei della famiglia Kim, più che a scatenare un conflitto che minerebbe la sopravvivenza stessa della dinastia regnante.
Possibili evoluzioni
Seguendo questa interpretazione dei fatti, la teoria che sembra riunire più consensi è quella che esclude un imminente conflitto armato, e che spiega l’attuale crisi internazionale come una serie di tentativi da parte dei governi statunitense e nordcoreano di capire fino a che punto possano spingersi nelle provocazioni reciproche.
Trump appare essere il reale elemento di instabilità in quella che, agli occhi dei sudcoreani, è una coerente realizzazione delle ambizioni dei Kim. Se finora le azioni della Corea del Nord trovavano una risposta negli sforzi diplomatici delle precedenti amministrazioni americane, adesso sono i tweet di Trump la vera novità in questo processo di ricalibratura delle relazioni tra Corea del Nord e Stati Uniti.
Da ora in avanti, quello che è lecito aspettarsi è un governo sudcoreano sempre più determinato a rafforzare il proprio arsenale militare, non tanto in reazione ai recenti sviluppi nucleari sulla penisola, quanto come conseguenza di un alleato americano percepito sempre più disinteressato a fornire un apparato di difesa affidabile e costante ai propri alleati.
Il concetto di America First si posiziona così alla base di un rinnovato desiderio di militarizzazione che, sebbene difficile da raggiungere, si sta progressivamente inserendo nelle priorità dei Paesi dell’est asiatico.