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Cop 29 di Baku parte male: i grandi leader assenti e Usa fuori dagli Accordi di Parigi con il ritorno di Trump

Alla Cop 29 di Baku, la sfilza di leader assenti racconta quanto la conferenza sia partita con il piede sbagliato, tra ragioni geopolitiche, crisi interne e priorità che scivolano sempre più lontano dal clima. Sullo sfondo l’incertezza degli Usa e il conflitto di interessi dell’Azerbaigian

Cop 29 di Baku parte male: i grandi leader assenti e Usa fuori dagli Accordi di Parigi con il ritorno di Trump

Il Pianeta è febbricitante: la temperatura media ha ormai superato il limite dei +1,5 gradi, una soglia che un tempo sembrava irraggiungibile, ma che oggi suona come un disperato campanello d’allarme. Eppure, mentre il mondo soffre, i leader globali sembrano restare sordi a questa chiamata. La Cop 29, che prende il via oggi a Baku, Azerbaigian, fino al 22 novembre, si apre con una lista di assenti illustri che non promette bene per il futuro delle trattative. Sullo sfondo, la vittoria di Donald Trump alle elezioni Usa: dopo aver portato gli Stati Uniti fuori dall’Accordo di Parigi nel 2017 (decisione poi invertita da Biden nel 2021), Trump potrebbe ripetere il “colpo di scena” il 20 gennaio 2025, appena insediato. Per ora, i delegati americani rappresentano ancora l’amministrazione Biden, ma lo stesso presidente ha già dichiarato che non sarà presente. E non sarà l’unico a mancare: motivi di salute, conflitti geopolitici e crisi interne sembrano impedire la partecipazione dei grandi leader, con le potenze più inquinanti che ancora una volta saltano l’appuntamento decisivo per salvare il pianeta.

Cop 29, i big del mondo non ci sono: ecco perché

La Cop 29 di Baku parte in sordina con un’assenza pesante di leader mondiali, ognuno con le sue giustificazioni. Il presidente Joe Biden ha scelto di rimanere negli Stati Uniti, lasciando il compito di rappresentare gli Usa al consigliere climatico John Podesta. Dall’Europa, né la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen né il presidente francese Emmanuel Macron saranno presenti: la prima è impegnata nelle delicate fasi del suo secondo mandato, il secondo frenato dalle tensioni con l’Azerbaigian per il conflitto in Nagorno-Karabakh. Anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha scelto di rimanere in patria, alle prese con i problemi interni alla sua coalizione, mentre Re Carlo, impegnato da sempre sul fronte ambientale, ha preferito non affrontare il viaggio per motivi di salute. Le defezioni continuano: l’olandese Dick Schoof non parteciperà, così come i capi di Stato di Russia, Sud Africa, Giappone, Australia o il presidente colombiano Gustavo Petro, bloccato nel suo Paese dalle recenti alluvioni. Assenza inattesa e significativa quella del presidente brasiliano Lula, futuro ospite della Cop 30, costretto a rinunciare per motivi di salute. Infine, il presidente cinese Xi Jinping e il premier indiano Narendra Modi hanno scelto di dare priorità ad altre questioni ritenute più urgenti per i rispettivi Paesi.

In questo panorama di grandi assenti, sarà presente Giorgia Meloni: in qualità di rappresentante del G7, la premier italiana non poteva mancare, anche se il suo intervento sarà breve e limitato a un discorso in plenaria mercoledì 13 novembre, prima di tornare a Roma.

Fondi e negoziati a rischio

Alla Cop 29 sono attesi circa 50mila delegati, tra rappresentanti di governi, organizzazioni internazionali, Ong, aziende e un folto gruppo di lobbisti del settore fossile. Il tema chiave di quest’anno è la finanza climatica (New Collective Quantified Goal), con l’ambizioso obiettivo di mobilitare 1.000 miliardi di dollari, ben oltre i 100 miliardi annui promessi in passato. Tuttavia, questa cifra appare ancora lontana, e i dibattiti si concentreranno anche sulle difficoltà nell’accelerare la riduzione delle emissioni globali, un’impresa resa sempre più complessa dal costante aumento delle emissioni di gas serra.

Tra i punti cruciali vi è anche l’adattamento ai cambiamenti climatici già in atto, con un focus sulla protezione delle infrastrutture più vulnerabili e sulla gestione delle perdite e dei danni causati da eventi climatici estremi. Il tema più delicato rimane però la transizione energetica, con l’obiettivo di eliminare gradualmente i combustibili fossili – un traguardo su cui i progressi delle precedenti Cop sono stati scarsi. In effetti, la Cop28 di Dubai ha lasciato l’amaro in bocca: si è parlato di “transition away” dai fossili, ma senza decisioni vincolanti. E a Baku, la stessa tematica rischia di essere ignorata, complici la linea “soft” del Paese ospitante, fortemente dipendente da petrolio e gas, e la leadership di Mukhtar Babayev, ex dirigente di lunga data della Socar, la principale compagnia statale di oil&gas dell’Azerbaijan, oggi ministro dell’Ambiente. Questo evidente conflitto di interessi rischia di compromettere la credibilità della conferenza, già messa a dura prova dalle recenti dichiarazioni della Socar sull’incremento della produzione di combustibili fossili. A questo proposito sono già state annunciate proteste a livello globale, dalla Climate Parade di Roma a manifestazioni in Messico e Georgia, contro quella che molti considerano una contraddizione insostenibile.

La protesta della Papua Nuova Guinea

Mentre le grandi potenze rimangono spettatrici, aumenta il malcontento tra i Paesi più vulnerabili. Emblematica è la protesta della Papua Nuova Guinea, che già ad agosto aveva dichiarato l’intenzione di boicottare la conferenza a Baku. Il premier James Marape ha denunciato le promesse “vuote” delle nazioni industrializzate, incapaci di sostenere adeguatamente i Paesi in via di sviluppo, che soffrono le peggiori conseguenze dei cambiamenti climatici senza essere i principali responsabili. Il ministro degli Esteri, Justin Tkatchenko, ha rincarato la dose definendo i negoziati “una totale perdita di tempo” e ribadendo che la Papua Nuova Guinea non tollererà più l’inerzia dei grandi Paesi mentre la propria popolazione soffre. In segno di protesta, invieranno solo una piccola delegazione tecnica, senza alcun rappresentante politico di alto livello.

Il dilemma degli Stati Uniti e il rischio di un vuoto di leadership

In sottofondo aleggia una questione centrale: il ruolo degli Stati Uniti. L’incertezza che circonda la politica climatica americana, specialmente con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, solleva interrogativi anche per la Cina. Da sempre uno dei maggiori contributori ai fondi internazionali per il clima, Washington gioca un ruolo cruciale nel sostenere finanziariamente i Paesi più vulnerabili, quelli che subiscono maggiormente gli impatti della crisi climatica pur essendo responsabili di una frazione irrisoria delle emissioni globali. Se Trump decidesse di disimpegnarsi nuovamente, come anticipato dal Wall Street Journal, potrebbero venire meno miliardi di dollari destinati a programmi vitali per la resilienza climatica di queste nazioni, e, soprattutto, la pressione politica su altri grandi emettitori, come Cina e Paesi del Golfo, per aderire e contribuire al fondo.

La Cina, dal canto suo, sembra determinata a proseguire su questa strada, convinta che l’innovazione sostenibile non sia solo una questione ambientale ma anche un mezzo per guadagnare un vantaggio strategico nell’economia globale del futuro.

Cop 29: un’altra opportunità persa?

La situazione è sempre più critica: la temperatura media della Terra ha ormai superato il limite dei +1,5°C stabilito dagli Accordi di Parigi. Gli effetti sono ovunque visibili e devastanti: siccità severe in Africa, incendi incontrollabili in California, cicloni devastanti in Florida e alluvioni in Europa e Colombia. Secondo il monitoraggio di Copernicus, il 2024 si avvia a diventare l’anno più caldo mai registrato, e senza tagli drastici alle emissioni, entro il 2100 rischiamo di toccare i +3 gradi. Eppure, le emissioni globali continuano a salire, con un incremento dell’1,3% nel 2022, come ha riportato l’Onu.

Con la Cop 29 che si terrà nello stadio di Baku, circondata dai lobbisti del settore fossile, cresce il timore che il dibattito si riduca a una mera questione di fondi, senza alcun impegno concreto sui limiti alle emissioni. Che questa conferenza diventi un’occasione “finanziaria” o un simbolo del “disimpegno” dipenderà dalla volontà politica dei governi, ma l’assenza dei grandi leader del mondo alimenta il timore che l’entusiasmo per l’agenda verde stia lentamente affievolendosi, mettendo a rischio l’impulso necessario per affrontare con serietà la crisi climatica.

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