Bando ai buoni propositi. Sul petrolio lo scontro è più aspro che mai. Il presidente della Cop 28, il sultano degli Emirati Al Jaber, ha dismesso i panni dell’arbitro per affermare che non ci sono prove scientifiche che dimostrano che l’eliminazione dei combustibili fossili possa fermare il riscaldamento globale. “Non esiste una prospettiva di sviluppo nel caso di uscita rapida dall’energia fossile”, ha aggiunto, “a meno che non si voglia riportare il mondo nelle caverne”. Insomma, nonostante gli impegni presi da molti Stati per finanziare il fondo Loss Damage per indennizzare i Paesi poveri per i danni causati dal riscaldamento globale, un accordo efficace per limitare i danni da petrolio non è affatto vicino. Anzi, si moltiplicano le critiche ad una visione del mondo in verde. E non solo da parte degli sceicchi.
La nuova strategia delle big del petrolio
Nel corso degli ultimi mesi le majors dell’oro nero hanno radicalmente modificato la loro strategia: basta con i tentativi di riconversione dal fossile. Si torna a pompare greggio,
“Stiamo aumentando il valore aumentando la produzione dalle nostre risorse privilegiate per soddisfare la domanda globale”, ha affermato il ceo di Exxon, Darren Woods spiegando le ragioni che hanno spinto il gigante a entrare nel fracking cioè il petrolio da scisti, e a sviluppare la produzione in Guyana.
Il ritorno alla tradizione, secondo il boss, non significa l’abbandono dei piani legati alla cattura ed allo stoccaggio del carbonio. Anzi. Gli sforzi si moltiplicano: “il programma da 7 miliardi di dollari “ sta crescendo rapidamente a mano a mano che registra nuovi clienti per i servizi di cattura e stoccaggio”. Sarà, ma la nuova politica ha garantito a Exxon i profitti più alti della sua storia, (55 miliardi di dollari a fine 2022) e sull’onda di questi numeri Woods ha guidato il fronte dei petrolieri non più pentiti: “Le trattative dell’Onu su come limitare il cambiamento climatico – ha detto in un’intervista al Financial Times – si sono concentrate troppo a lungo sull’energia rinnovabile, trascurando il ruolo dell’idrogeno e dei biocombustibili”.
Secondo Wood i paesi dovrebbero focalizzarsi sulla riduzione delle emissioni più che sull’addio alle fonti fossili (ossia petrolio, gas, e carbone).
Una linea che accomuna i petrolieri occidentali agli sceicchi del Medio Oriente ed agli alleati russi. Anche, i concorrenti europei hanno rivisto i piani, Eni e Total Energies comprese, fino a Shell già all’avanguardia nella rivoluzione verde.
Arabia Saudita: pioggia di investimenti con i soldi del petrolio
Certo, i 50 maggiori produttori di petrolio al mondo, tra cui appunto Exxon e la saudita Aramco, si sono impegnati a ridurre le loro emissioni, anche quelle di gas metano. Ma in linea con l’impostazione espressa da Woods non c’è alcun impegno a diminuire la produzione di greggio. Tanto meno da parte dell’emiro Al Jaber, a capo del settimo produttore mondiale di petrolio, peraltro impegnato ad aumentare le estrazioni e i legami con i clienti, specie in Asia.
La posizione del Paesi del Golfo, del resto, riflette l’orientamento del gigante della regione, l’Arabia Saudita, decisa a far pesare la sua forza politica e finanziaria nei nuovi equilibri internazionali. Riyad è ben decisa a far pesare il suo ruolo di grande finanziatrice del Fondo Monetario così come a sostenere le ambizioni di Vision 2030, il piano per far decollare l’economia prima che si esaurisca la spinta del petrolio.
Il Paese ha investito, ancor prima dell’assegnazione dell’Expo 2030 a spese di Roma, 800 miliardi di dollari per costruire 400 mila camere d’albergo già assegnate a tutti maggiori operatori nel settore, impegnati in una lotta contro i tempi per il decollo di ai Al-Ula, il centro turistico che sta sorgendo nei pressi di un sito archeologico Nabateo. Nel 2025 qui aprirà i battenti Marriot con un hotel da 250 camere, quattro ristoranti, una spa con piscina e centro termale affiancate da un business center. Niente di paragonabile però a El Sharaan: 40 camere ed altrettanti appartamenti che s’affacciano sulle rocce. “Un ascensore in vetro permetterà un’esperienza geologica unica, grazie alla vista sui reperti archeologici”.
Il turismo è solo un aspetto, appariscente ma non unico, dell’ansia di potenza del Paese di Mohammed Bin Salman, corteggiato nonostante l’assassinio del giornalista Adnan Khashoggi.
L’Arabia Saudita, forte delle entrate petrolifere, è oggi un grande player finanziario, con forti interessi nella tecnologia, sia civile che militare, decisa ad esercitare appieno il ruolo di prima potenza del petrolio. Al pari degli altri Paesi del Golfo.
E così sorge il sospetto (o qualcosa di più) che dietro la disponibilità dimostrata all’avvio dei lavori si celasse un intento gattopardesco: favorire, almeno all’apparenza, la ricerca di soluzioni a medio-lungo temine all’emergenza climatica, favorendo però il mantenimento del primato dell’energia fossile. L’obiettivo che accomuna sceicchi, boiardi russi e petrolieri di Houston.
Il caso Blue Carbon: Dubai compra le foreste africane
Esemplari al proposito la vicenda di Blue Carbom, una società dello sceicco Ahmed al Maktoum, membro della famiglia regnante di Dubai, che ha acquistato in Liberia un milione di ettari di terreno, il 10 per cento della superficie del Paese. Dubai ha così acquisito il controllo dei diritti ad inquinare su un milione di ettari di foresta (operazione ripetuta in Zimbabwe e Zambia). Per i prossimi trent’anni la società Blue Carbon potrà cedere sul mercato i diritti ad inquinare secondo quanto previsto dall’accordo di Parigi. Insomma, basta pagare per essere in regola con le norme ambientali. Difficile che gli abitanti delle foreste sono d’accordo. Ma, ahimè, Tarzan non vota. I petrolieri sì.