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Cop 28 Dubai: come evitare il fallimento aiutando i Paesi più arretrati. Chi paga e quanto per la transizione?

Leandro Neumann Ciuffo on Flickr

Si è inaugurato ieri il Cop 28 a Dubai. Nel regno del petrolio, dove coabitano lo sperpero energetico di piste di sci artificialmente mantenute da aria condizionata con sterminati campi solari, ha preso il via quello che rischia di essere il più contestato vertice sul clima dal lontano 1995. Sono passati 28 anni dalla prima Conferenza delle Parti, da cui l’acronimo COP (Conference of Parties), dove parti sta a indicare i circa 200 stati che vi partecipano. Quest’anno i leader mondiali e i loro ministri si incontrano negli Emirati Arabi Uniti e la partita finanziaria potrebbe surclassare la posta in gioco degli obiettivi climatici. Infatti, come di consuetudine accade ogni cinque anni, il vertice di quest’anno è finalizzato a stendere un bilancio globale per mettere alla prova l’efficacia dell’Accordo di Parigi del 2015 nell’affrontare le maggiori sfide climatiche. Come accaduto in precedenza, il Summit riconosce che nonostante i progressi, il mondo è fuori strada nel raggiungimento dei target. Dall’avvento di queste conferenze il mondo ha pompato nell’atmosfera più delle emissioni rilasciate in tutti i secoli precedenti. E ogni anno – ad eccezione dell’anno della crisi finanziaria del 2008 e quello del lockdown – sono in aumento rispetto al periodo precedente. Anche il 2022 registra un record e “nessuna fine in vista” secondo la World Meteorological Organization. Invece di un salutare esercizio di autocoscienza interrogandosi sulle ragioni del fallimento, si preferisce alzare ulteriormente l’asticella degli obiettivi di decarbonizzazione i quali da sfidanti diventano decisamente irrealizzabili. 

Cop 28 Dubai: la partita finanziaria sul fondo Loss & Damage

Nelle prossime due settimane, dopo l’atteso messaggio del Pontefice che incalzerà l’umanità a fare di più e l’intervento di Carlo d’Inghilterra ambientalista della prima ora ma sovrano di una nazione il cui governo ha deciso di rimandare alcuni target verdi considerati inconciliabili con la crescita del paese, le negoziazioni saranno incentrate sul flusso di denaro che dovrà alimentare il fondo Loss & Damage. Questo fondo, conquista ottenuta dai paesi poveri alla precedente COP di Sharm el-Sheikh, deve servire a rendere la decarbonizzazione una transizione giusta e non un aggiuntivo fardello sulle fragili economie di quelle regioni del mondo che stanno uscendo dalla povertà. Queste rappresentano 14% della popolazione mondiale ma contano per l’1% delle emissioni. Praticamente il consumo pro capite annuo di elettricità equivale all’assorbimento di kilowattora di un grande frigorifero occidentale.  All’istituzione del fondo sarebbe dovuto seguire, nell’arco dei 12 mesi seguenti, la definizione di criteri e modalità per stabilire le compensazioni. In sostanza chi paga e quanto. Ma non ne è stato fatto nulla. L’accordo è quindi ineludibile per chiudere dignitosamente la COP28. Oppure sarà un plateale fallimento.

Cop 28 Dubai: la battaglia è anche sulle parole

Se ci sarà battaglia sulle cifre, a Dubai si consumerà anche uno scontro sulle parole. Nel testo finale del negoziato riuscirà a farsi largo l’impegno “dell’eliminazione dei combustibili fossili”? È più probabile che si ripieghi sulla vaga promessa di una “graduale riduzione dei combustibili fossili“. Non solo perché il presidente di turno della conferenza è il Sultano al-Jaber, a capo delle attività di fonti rinnovabili degli Emirati Arabi Uniti e anche Amministratore Delegato di ADNOC la società petrolifera statale, ma perché il mondo è ancora alimentato per circa l’80% da petrolio, gas e carbone. Per uscirne non basta la parola phase out su un accordo.

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