Per sentito dire
C’è sempre qualcuno che fa una statistica. PoliFact.com, che misura il tasso di veridicità e accuratezza delle dichiarazioni dei politici di Washington, ha rilevato che il 77% delle dichiarazioni di Donald Trump sono in grande parte prive di fondamento, contraffatte o balle totali. Per questo motivo gli ha assegnato il premio di bugiardo dell’anno 2015 (2015 Lie of the Year). Nella motivazione del premio sono riportate alcune dichiarazioni del candidato del GOP alla presidenza completamente prive di ogni fondamento.
“Io c’ero quando il World Trade Center è crollato. Ero a Jersey City dove migliaia e migliaia di persone stavano festeggiando il crollo delle torri… applaudivano!”. Balla: non c’è nessun video che mostra questa scena e le pubbliche autorità hanno negato che ciò sia mai avvenuto, commenta PoliFact.
“Il governo messicano ci manda i criminali”. Balla dice PoliFact. Il governo messicano non fa niente del genere. La maggioranza dei messicani che varcano clandestinamente la frontiera sono persone in cerca di lavoro. Inoltre le statistiche mostrano che l’immigrazione clandestina è calata enormemente dopo la recessione e oggi rimane bassa.
“I bianchi uccisi dai bianchi sono il 16%, i bianchi uccisi dai neri sono l’81%”. Balla, secondo PoliFact. È esattamente il contrario. Nel 2014, stando a statistiche ufficiali, i bianchi uccisi dai bianchi sono stati l’82%, mentre quelli uccisi da cittadini afroamericani il 15%.
L’iperbole di verità
Quando Bill O’Reilly di Fox News ha invitato Trump a portare delle pezze d’appoggio per queste dichiarazioni, il funambolico candidato ha detto “Andiamo Bill non posso mica verificare tutte le statistiche. Me ne arrivano a milioni…”.
Con George Stephanopoulos, il conduttore di Good Morning America e capo redattore di ABC News, che gli rivolgeva lo stesso invito è stato un po’ meno laconico: “Molte delle cose che dico – e intendo tutte – possono apparire controverse all’inizio, ma, credimi George, alla fine non lo sono più, perché la gente comincia a pensare che Trump in effetti ha ragione”.
In realtà Trump segue una precisa sceneggiatura che ha messo a punto come immobiliarista e che ha esplicitato nel suo “capolavoro” The art of deal, il testo, secondo Trump, più importante dopo la Bibbia. A proposito di questa realtà aumentata dal fattore Trump che gli ha procurato 3500 cause legali, l’imprenditore di New York ha scritto nel suo libro: “La definirei iperbole di verità. È una innocente forma di esagerazione ed è anche una forma enormemente efficace di promozione“. In una deposizione giurata dello scorso anno Trump ha dichiarato di non usare un computer e di non possedere neppure uno smartphone. Allora, come ha postato i 50mila tweet?
La versione di Trump
È, dunque, la “versione di Trump” a diventare il fatto avvenuto, perché la gente, alla fine, ci crede. Semplice no? Ed è proprio qui il punto. Con una bella fetta dell’elettorato Trump ha un rapporto fiduciario, quasi affettivo. Molti dei suoi sostenitori è gente comune che lavora sodo, manda i figli a scuola, paga le tasse e si comporta bene. E allora non può essere che l’affetto l’unico sentimento che può oscurare la verità in una persona onesta. Tutti i supporter di Trump, se interpellati, ripetono come un risponditore automatico lo stesso refrain: “Trump è l’unico che sa quello che si deve fare”. Punto.
Hanno un bel dire e scrivere gli opinionisti del “New York Times” e dell’“Economist” che Trump non solo non sa quello che si deve fare ma che è anche più pericoloso dell’ISIS. Succede che anche molti americani hanno lo stesso mood degli elettori inglesi così ben espresso da Michael Gove quando, messo in guardia sulle conseguenze della Brexit, ha detto “Ne abbiamo le palle piene degli esperti”.
Balle del tipo di quelle riportate da PoliFact affosserebbero o avrebbero affossato qualsiasi altro candidato. Anche una menzogna leggera è anatema nelle presidenziali americane. Gary Hart, già quasi certo della candidatura democratica, incredulo fu costretto ritirarsi dalla corsa per via di una scappatella extraconiugale tenacemente negata; le aspirazioni presidenziali di Ted Kennedy furono seppellite per sempre da un comportamento non cristallino, Bill Clinton finì quasi sotto impeachment e divenne un presidente zoppo per una fellatio ripudiata. E il sesso orale non è neppure adulterio. L’accusa di Ted Cruz a Trump di essere un donnaiolo adultero seriale non ha smosso neppure una foglia.
Trump invece può dire e fare quello che vuole e godersi una crescita di popolarità che lascia di sasso le persone ragionevoli. Jeb Bush ha detto che Trump è il candidato del caos. Forse è proprio il caos il punto di forza di Trump.
Tutta colpa dell’ars retorica
Comunque sia non si riesce a spiegare tanto bene come un candidato le cui affermazioni per il 77% sono invenzioni o informazioni fasulle possa avere una presa così efficace su un elettorato maturo e avvezzo ai meccanismi della democrazia come quello americano.
Paul Krugman in un editoriale sul NYTimes ha addossato tutto la responsabilità al “bothsidesism” dei media intendendo, con questo termine intraducibile, la volontà patologica dei grandi media nel descrivere i politici e i loro programmi come parimenti buoni o parimenti cattivi senza riguardo di quanto sia ridicolo questo atteggiamento. E quindi aggiunge: “gli elettori che non hanno né il tempo né la disposizione di fare autonomamente delle ricerche e prendono le notizie e le analisi dalla televisione e dalle pagine dei giornali, ricevono dalla loro dieta mediatica quotidiana l’impressione di questa falsa equivalenza”.
Per l’“Economist c’è di più che la responsabilità dei media, c’è anche un talento di Trump. Trump ha un talento che nessun altro prima di lui è riuscito ad esprimere. Secondo L’“Economist”, uno dei think-thank più importanti del mondo, il talento di Mr. Trump è in qualcosa che si chiama retorica, una parola molto antica che Trump ha saputo riempire di straordinaria modernità, seguendo alla lettera gli insegnamenti di Orwell sul discorso politico.
Lasciamo all’“Economist” stesso il compito di spiegare ai nostri lettori in che cosa consista questa modernità e perché risulti così tanto efficace. Di seguito pubblichiamo la traduzione italiana di un articolo dal titolo “Double-plus effective. Why Donald Trump’s rhetoric—with apologies to Orwell—works so well” uscito nella rubrica “Johnson” (Traduzione di John Akwood).
Segnaliamo inoltre una pubblicazione, appena uscita, dove si può avere, in lingua italiana, un saggio della tecnica retorica di Trump. Questo libro (gratuito in formato ebook) raccoglie, in traduzione italiana, i 100 tweet più popolari di Trump da leggere in una mezzoretta scarsa. È uscito anche un libro gemello per Hillary Clinton. Confrontando i due stili si può avere un’idea della differenza profonda tra gli stili comunicativi e retorici delle due persone che si stanno contendendo la leadership del più importante paese del mondo.
Inventare
È facile prendersi gioco del modo in cui Donald Trump usa la lingua inglese. I suoi tweet tendono a seguire la stessa struttura: due brevi dichiarazioni a cui segue una parola o frase dal forte richiamo emotivo e infine un bel punto interrogativo (il 12 giugno dopo la sparatoria di Orlando ha twittato “We must be smart!”).
Inventa di sana pianta soprannomi per i suoi oppositori: “piccolo Marco” (Rubio), “Ted (Cruz) il bugiardo”, la “disonesta Hillary” (Clinton). Il suo vocabolario è terra terra: dice “serie A” per descrivere come lui farebbe le cose o “trombata” per descrivere una brutta sconfitta (come quella di Hillary con Obama). Durante le primarie di fronte all’unanime disapprovazione ha promesso di smettere (e in effetti a un certo punto è successo). Peter Barker, il reporter decano del New York Times dalla Casa Bianca, lo ha definito un “insultatore seriale”.
Come è stato possibile che quest’uomo sia divenuto il candidato del partito di Abraham Lincoln? Anche non riusciamo a farcene una ragione, c’è di chiederesi controvoglia se qualcosa di “buono” deve pur averlo fatto se si trova dove is trova. È il linguaggio di Trump che funziona. Dopo tutto il linguaggio è lo strumento con cui un politico costruisce il consenso (insieme alle strette di mano e alle pacche sulle spalle). Il modo di parlare o di scrivere ha spazzato via politici capaci e con una lunga esperienza.
Semplificare
Primo, Trump parla semplice. I giornalisti spesso biasimano il linguaggio semplicistico dei politici e alle volte si spingono a correggerlo come si fa con il tema di un ragazzo di terza media. Si dice che Trump usi il linguaggio e il lessico di un ragazzo di dieci anni. Ma il test di leggibilità, basato sulla formula di Flesch, misura semplicemente la lunghezza delle parole e non dice niente a proposito del contenuto.
Al limite, questo test misura le cose sbagliate in un discorso politico che, in effetti, poi non lo sono. Le frasi brevi che contengono parole di uso comune sono una cosa buona. “Non usare mai una parola lunga al posto di una corta” scrive Orwell nel saggio Politics and the English Language.
La semplicità non è stupidità: rendere la lingua semplice è catturarne la sua essenza e renderla attraente. Innumerevoli studi psicologici hanno dimostrato che ciò che viene capito ha maggiori possibilità di essere considerato vero. “Voglio costruire un grande e meraviglioso muro e il Messico pagherà il conto per costruirlo” può essere insensato ma è facile da capire, e il cervello umano, nella sua limitatezza, apprezza le cose semplici.
Ripetere
Un’altra tattica di Trump è la ripetizione. Anche cio può sembrare infantile. Ma non lo è. Trump ripete esattamente le stesse cose infinite volte e di fila in un modo diretto e martellante.
Ma in una maniera più sofisticata, la ripetizione è una rispettabilissima tecnica oratoria. Marco Antonio nell’orazione funebre di Cesare ripete in modo sarcastico ad ogni frase che Bruto “è uomo d’onore” dopo che Bruto ha assassinato Cesare (Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II). Winston Churchill chiamò a raccolta gli inglesi con il refrain “Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sui luoghi di sbarco, combatteremo nei campo e nelle strade …”. E la più amata parole d’ordine del 20° secolo è il grande ritornello “I have a dream”. Trump non è di certo Martin Luther King, ma sa altrettanto bene come far ricordare alla gente che cosa ha detto.
Improvvisare
Il modo più efficace di Trump per stregare la propria audience è forse il più semplice: non fa un discorso preparato, ma parla a ruota libera in base all’audience che trova. Solo in rari casi, quando cioè si rende conto che la sua bocca può ficcarlo in qualche guaio – come nel suo primo discorso dopo la sparatoria di Orlando – ricorre al teleprompter.
Non sembra neppure avere una qualche scaletta. I reporter che stancamente seguono i candidati tradizionali durante le campagne elettoriali sanno che, se anche parlano senza appunti, i politici normali riscaldano sempre la stessa minestra di luogo in luogo. Anche Trump, come abbiamo detto, usa infiniti tropi e ripete moltissimo. Ma è diverso, perché Trump parla veramente a braccio e contesualizza i temi. Evita la solita giaculatoria di cliché e in questo modo imbambola i giornalisti al seguito.
Una frase di Trump può fare notizia. È accaduto, per esempio, quando parlando di un caso di frode, una sua improvvisa divagazione ha dato luogo a una disputa riportata da tutta la stampa del paese: Trump ha fatto cenno a un giudice (che fra l’altro gli ha dato torto in una causa) in presunto conflitto d’interessi perché di origine messicana. Falso, in realtà il giudice in questione è nato negli Stati Uniti da genitori messicani.
Pericolosamente efficace
Questa capacità d’improvvisazione è un vantaggio. Anche una tesi fondata appare debole se veicolata come un messaggio automatico. Succede altresì che una tesi priva di fondamento può apparire convincente se appare spontanea, specialmente ad elettori disgustati dai politici di professione. Ciò mostra come le famose regole di Orwell per un uso onesto e chiaro della lingua in realtà sono un’arma a doppio taglio.
Parlare con onestà in pubblico significa per Orwell esprimersi in modo concreto e sintetico senza cliché. Ma pure un demagogo può usare questa stessa tecnica. Orwell crede nel magico effetto terapeutico del parlare chiaro per smascherare le menzogne ed evitare il linguaggio volgare. Ma alcuni elettori non sanno riconoscere una menzogna e altri apprezzano le volgarità.
Se nella comunicazione ci sono troppe bugie e volgarità, allora il legame con i fatti si allenta, l’atteggiamento verbalmente brutale verso gli oppositori e uno stile artatamente studiato per ipnotizzare gli ascoltatori sono gli ingredienti di un cocktail pericolosamente efficace. Doppiamente efficace.