Si apre oggi una settimana cruciale per la trattativa sul nuovo contratto dei bancari, che riguarda più di 300mila lavoratori. Per negoziare senza patemi, l’Abi si è detta disponibile a prorogare di 12 mesi il testo attuale, in scadenza il 31 dicembre di quest’anno. I sindacati però hanno rifiutato, chiedendo piuttosto un rinvio di 6 mesi del termine entro cui effettuare la disdetta del contratto stesso, al momento fissato al 30 giugno. Una posizione condivisa da tutte le sigle: Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin. La risposta dell’Abi è attesa per mercoledì 20.
Ma qual è la vera posta in gioco? E, soprattutto, quali sono le prospettive per il nuovo contratto? Ne abbiamo parlato con Lando Maria Sileoni, segretario generale della Federazione autonoma dei bancari italiani (Fabi).
Segretario, innanzitutto può spiegarci in termini pratici che differenza c’è fra la proposta delle banche e la vostra?
«C’è una differenza sostanziale che riguarda la decorrenza del nuovo contratto. Se avessimo accettato la proroga del testo attualmente in vigore, avremmo perso tout court un anno di aumenti salariali, facendo comunque partire la trattativa in salita. Secondo le banche, dovremmo restituire noi qualcosa sull’inflazione, ma nella discussione mediatica sul nuovo contratto non abbiamo mai parlato di aumenti legati solo all’inflazione. Potremmo parlare invece di aumenti legati alla redditività e alla produttività, considerando che le banche chiuderanno quest’anno in utile».
Per quanto riguarda la piattaforma contrattuale, quali saranno le linee guida?
«Terremo presenti diversi aspetti. A causa della crisi i rinnovi degli ultimi anni sono stati condizionati dal punto di vista economico. Dovremo rilanciare sul tema dell’occupazione, ad esempio, garantendo un trattamento migliore ai giovani che entrano grazie al Fondo per l’occupazione giovanile. È vero che da una parte si elimina il precariato, perché vengono tutti assunti a tempo indeterminato, ma dall’altra entrano con un trattamento economico più basso rispetto a quello previsto dal contratto nazionale attuale, anche se per pochi anni. Chiederemo comunque aumenti economici per tutti i lavoratori».
Veniamo al capitolo esuberi: secondo lei quanti altri posti di lavoro è prevedibile che le banche vi chiederanno di tagliare?
«Impossibile dirlo adesso. Prima bisogna vedere se ripartiranno le fusioni e quale sarà il destino della riforma delle Bcc. Dopo di che c’è da valutare l’andamento complessivo del settore: se viene confermato il trend positivo del ritorno all’utile, per noi l’argomento esuberi è chiuso».
Molti posti però sono a rischio a causa dell’innovazione digitale. Il nuovo contratto offre un’opportunità per affrontare anche questo tema?
«Certamente. Nel mondo delle banche si sta diffondendo una serie di nuove figure professionali non codificate nell’attuale contratto nazionale e che invece potrebbero trovare spazio nel nuovo. Abbiamo già fatto delle proposte in questo senso con le altre associazioni sindacali, ad esempio per quanto riguarda le attività di consulenza finanziaria e legale connesse all’introduzione delle nuove tecnologie. La sintesi è molto semplice: l’innovazione, se si accompagna alla specializzazione e alla consulenza, non può non creare nuovi posti di lavoro».
Passiamo alle proposte del nuovo governo. Cosa pensa del progetto di rivedere le riforme delle banche popolari e delle Bcc?
«Siamo sempre stati contrari a entrambe le riforme, ma temo ormai sia tardi per intervenire. Anche se il nuovo governo fa bene a insistere. La riforma delle banche di credito cooperativo, ad esempio, ha già prodotto la nascita di tre gruppi che – trasformati in spa – da fine anno risponderanno alla Bce, non più alla Banca d’Italia. Nell’ultimo anno e mezzo sono stati fatti dei passaggi a livello organizzativo e politico che potrebbero rendere impraticabile qualsiasi passo indietro».
E invece della proposta di separare banche commerciali e banche d’investimento?
«È molto importante, e, dal mio punto di vista, improrogabile, ma richiede di modificare il Testo Unico della Finanza. Sarebbe una riforma positiva, perché permetterebbe di tornare a un modello di banca tradizionale, quello dell’assistenza, della consulenza e soprattutto del reinvestimento sul territorio dei profitti delle banche in favore delle famiglie e delle aziende. Metterebbe fine alle speculazioni di ogni genere».
Però l’Italia non è un Paese con molte banche d’investimento. A parte Mediobanca…?
«Non mi faccia fare nomi, ma ci sono anche alcune banche straniere abbastanza spregiudicate da questo punto di vista».
Un’ultima domanda: nei giorni scorsi è circolata un’indiscrezione secondo cui il ministro Tria avrebbe intenzione di affidare a Rainer Masera l’incarico di trattare con l’Ue su un nuovo modello di regolazione delle banche che distingua gli istituti grandi da quelli piccoli. Cosa ne pensa?
«Sul merito della proposta siamo perfettamente d’accordo perché tutti gli istituti di credito, dimensioni a parte, hanno il diritto di sopravvivere e di crescere. Tria e Masera sono due persone competenti e hanno le giuste relazioni internazionali, oltre a una visione reale e non virtuale del settore bancario e dell’economia italiana. Possono solo fare bene. Una visione monopolistica del settore bancario non ci appartiene e non ci apparterrà mai».