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Contratti: Confindustria e sindacati si affidano al Cnel

Imagoeconomica

L’intesa raggiunta tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria in materia di relazioni industriali, di contrattazione e di rappresentanza ribadisce le posizioni note da tempo ma indica con maggiore organicità l’obiettivo di “impedire, specie a soggetti privi di adeguato livello di rappresentatività certificata, di violare o forzare arbitrariamente i perimetri e gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi di categoria”.

La preoccupazione è fondata poiché il tradizionale monopolio contrattuale delle grandi confederazioni ( e delle categorie che in questo documento si confermano la vera spina dorsale del sindacato) è stata messa in discussione da centinaia di accordi contrattuali, sottoscritti da nuovi soggetti associativi, sia sindacali che imprenditoriali, molto spesso ( ma non sempre) considerati “pirata” perché stipulati con la sola finalità di abbassare il costo del lavoro.

A questo si aggiunge il diffondersi di una sorta di dumping intersettoriale che porte molte aziende riconducibili oggettivamente ad un determinato comparto ad applicare il contratto collettivo sottoscritto da altre categorie perché meno costoso. Come sempre la moneta cattiva scaccia quella buona, ma questa volta i conflitti rischiano di trasferirsi all’interno delle confederazioni.

È questa la ragione per cui si propone al resuscitato CNEL di “effettuare una precisa ricognizione dei perimetri della contrattazione collettiva di categoria anche al fine di garantire una più stretta correlazione tra Contratto collettivo applicato e reale attività di impresa”. Al CNEL toccherebbe anche l’esame dei soggetti che nell’ambito dei perimetri contrattuali, risultino essere firmatari di nazionali di contratti collettivi nazionali di categoria per accertarne l’effettiva rappresentatività.

Con la misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali (per questi ultimi una vera novità che non sarà priva di vivaci conflitti) sarebbe più semplice definire le procedure di consultazione certificata dei lavoratori interessati, le cui modalità vengono comunque affidate alle organizzazioni di categoria.

Il documento sottolinea la coerenza del percorso con” i principi sanciti dal legislatore costituzionale in materia di contrattazione collettiva” e , curiosamente, richiede la “piena e leale collaborazione delle Istituzioni” che, par di capire, non dovrebbero insistere sul “salario minimo” ma recepire le intese definitivamente sottoscritte dalle organizzazioni sindacali e imprenditoriali che le condividono.

Il richiamo all’articolo 39 della Costituzione, ancora inattuato né oggetto di proposte di modifica, è in realtà un atto di difesa preventiva di fronte alla possibile critica di volerlo eludere, giacche in una legge (tanto più nella Costituzione) la forma è sostanza. Perché, senza applicazione (o senza modifiche) del “39” non sarebbero ancora valide le ragioni che spinsero la Suprema Corte ad annullare per incostituzionalità sia il celebre “Decreto Vigorelli” n. 741 del 1959 che la legge di proroga approvata dal Parlamento nel 1960?

Per il resto il documento conferma l’assetto contrattuale su due livelli attribuendo al contratto nazionale la governance della contrattazione ma rilanciando la contrattazione decentrata sul “welfare integrativo” e in funzione di accordi economici “legati a reali e concordati obiettivi di crescita di produttività, qualità, redditività” con l’impegno di favorire forme di partecipazione.

Sulle modalità di ricupero dell’inflazione si richiama l’indice dei prezzi armonizzato per i paesi UE e la “depurazione” dei prezzi di beni energetici importati, lasciando le decisioni ultime alle categorie. Infine, in materia di sicurezza del lavoro spunta un richiamo all’esigenza di revisione delle tariffe Inail per garantire “la sostenibilità economica e finanziaria dell’Istituto”.

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