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Contratti a termine, licenziamenti e modello spagnolo: ecco come stanno realmente le cose

Sindacati e sinistra italiano mitizzano il modello spagnolo per il lavoro ma a Madrid i licenziamenti sono più facili che in Italia – Infondate le critiche di Landini e Schlein sulla precarietà al Decreto Meloni del Primo Maggio

Contratti a termine, licenziamenti e modello spagnolo: ecco come stanno realmente le cose

Ministri ed esponenti politici francesi e spagnoli si sono messi ad applicare la teoria del ‘’dire a nuora perché suocera intenda’’. Oltralpe, per polemizzare con Marine Le Pen, se la prendono con la gestione delle migrazioni da parte del governo italiano, dando più valore alle dichiarazioni che ai comportamenti concreti della destra, che, da noi, finiscono, come sempre, nella pratica delle ‘’chiacchiere e distintivo’’. Dal canto suo l’ineffabile ministro del Lavoro di Pedro Sànchez, Yolanda Diaz, reduce dalla tournée al XIX Congresso della Cgil, per polemizzare con Vox ha accusato i suoi parlamentari di voler seguire l’esempio di Giorgia Meloni che, in Italia, ha abolito il reddito di cittadinanza (il che non è del tutto vero) e diffuso ‘’contratti spazzatura’’. Il ministro ha fatto, quindi, un palese riferimento a quanto previsto nel decreto lavoro del 1° maggio, in particolare – crediamo – in materia di contratti a termine, poiché il governo spagnolo è molto fiero di quanto è stato disposto in proposito nella recente riforma del lavoro, a seguito di un periodo di negoziazione che ha coinvolto tre ministeri, le parti sociali e in certa misura anche la Commissione Europea, e che si è protratto per oltre un anno a causa delle interruzioni derivanti dall’emergenza pandemica.

La nuova riforma del lavoro in Spagna

I leader di Cgil, Cisl e Uil – dopo questa riforma – hanno rimesso in uso un glorioso motto dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, durante la Guerra civile spagnola: ‘’Oggi in Spagna, domani in Italia’’, prendendo a modello le nuove regole entrate in vigore in quel Paese all’inizio dell’anno in corso. È giusto dare a Cesare quel che è di Cesare; sarebbe però il caso di mettere qualche puntino sulle. È stata la Commissione europea ad esigere dal governo spagnolo una significativa riduzione della minacciando, altrimenti, di bloccare la rata dell’ex Recovery fund. Infatti, secondo i dati ufficiali dell’INE, in Spagna oltre il 25% dei lavoratori ha contratti a tempo determinato (con percentuali molto più alte nelle attività legate al turismo e nelle costruzioni), e il tasso di disoccupazione è tra i più alti in Europa: il 14,57% nel terzo trimestre, sul totale della popolazione attiva, e il 31,15% tra i giovani con meno di 25 anni che faticano a trovare protezioni contrattuali.

Presunzione del contratto a tempo indeterminato, salvo due eccezioni

La riforma dovrebbe invertire questa tendenza emersa negli ultimi anni, dal momento che la riforma introduce la presunzione secondo cui il contratto di lavoro debba essere, di regola, a tempo indeterminato, salvo due sole eccezioni: quella delle esigenze produttive e quella della sostituzione di altri lavoratori. Detti contratti non potranno, in ogni caso, durare più di sei mesi (o un anno in presenza di accordi collettivi settoriali) e potranno essere utilizzati dalle imprese per non più di 90 giorni in un anno. Tale modifica normativa comporta, di fatto, la scomparsa della figura del contratto para obra o servicio determinado. È questa la modifica più rilevante se si considera che questa figura contrattuale oscilla tra il 38 e il 40% del totale dei contratti a tempo determinato. In sostanza, la conclusione dell’opera o del servizio non determina più l’estinzione del contratto perchè l’impresa, una volta terminata l’opera, dovrà offrire al lavoratore una proposta di ricollocamento, previo svolgimento, quando necessario, di un percorso di formazione a carico dell’impresa stessa. Se il lavoratore rifiuta l’offerta o si determina l’impossibilità di ricollocarlo, in mancanza di un posto adeguato, si verifica l’estinzione del contratto, con un’indennità del 7% calcolata sulle tabelle salariali previste nel contratto collettivo. Come si vede l’intenzione è da manuale, ma le elusioni e le alternative – come è giusto – non sono precluse. Come è riuscito il governo Sanchez a convincere le associazioni datoriali ad accettare una disciplina apparentemente così rigida? E perché il governo italiano non segue questo esempio?

La disciplina delle sanzioni per il licenziamento illegittimo

Ovviamente –direbbe un genovese – vuol dire che le aziende spagnole avevano la loro convenienza. Infatti, per rendersene conto, basterebbe fare quel passo in più che nessuno da noi azzarda: osservare la disciplina che vige in Spagna in tema di risoluzione del rapporto di lavoro. Al di là delle procedure previste, il principale elemento di differenziazione tra i diversi modelli licenziamento individuale è rappresentato dalla disciplina delle sanzioni per il licenziamento illegittimo: tutela reale con reintegrazione o tutela obbligatoria con il solo indennizzo di risarcimento. Le regole, a seconda delle fattispecie, oscillano, nei diversi Paesi, tra queste due forme di tutela ma, in generale, il licenziamento discriminatorio è considerato nullo. Quelli vigenti in Spagna, Stati Uniti e Regno Unito sono i sistemi che, anche in caso di licenziamento discriminatorio, consentono al datore di lavoro di optare per l’indennizzo in luogo della reintegra. L’indennizzo, in Spagna, non è determinato dal giudice che dichiara illegittimo il licenziamento, ma è ragguagliato all’anzianità di servizio. La constatazione è quasi banale: se non esistono particolari obblighi alla reintegra, mentre il costo del licenziamento è noto in anticipo in base a parametri automatici, assumere a tempo indeterminato non costituisce un particolare problema. In Italia, quando il licenziamento individuale era ad nutum (articolo 2118 cod.civ.) con il solo obbligo del preavviso, il lavoro a termine era tassativamente consentito in alcune casistiche previste dalla legge.

Le modifiche delle norme nel decreto lavoro del primo maggio

Per concludere è opportuno chiarire la portata delle modifiche delle norme sul contratto a termine contenute nel decreto lavoro del 1° maggio: le stesse che ha indotto il tandem Landini/Schlein ad accusare il governo di aumentare la precarietà favorendo proprio il ricorso a questa tipologia di rapporto. Sono critiche infondate. L’utilizzo acausale del contratto a termine rimane limitato a 12 mesi. I rinnovi e le proroghe continuano a non poter superare il limite dei 24 mesi, in relazione, però, di causalità previste nei contratti collettivi di lavoro; in loro mancanza, torna in scena il c.d. causalone: ossia quel riferimento generico alle ‘’esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva’’ ( a cui si aggiunge anche ‘’sostitutiva’’) che erano lo spasso dei giudici del lavoro quando i dipendenti, alla scadenza del contratto a termine, iniziavano una vertenza per la trasformazione a tempo indeterminato. La riforma Poletti del 2014 non aveva altro scopo che quello di togliere di mezzo, per la sua generica onnicomprensività, il ‘’causalone’’ e liberalizzare l’utilizzo del contratto a termine (secondo i requisiti previsti) fino a 36 mesi. In sostanza, il decreto conferisce alle parti sociali di stabilire, trascorso un anno, i motivi per cui il rapporto può proseguire per altri 12 mesi; e il rientro delle causalità per di più estremamente generiche rendono la tipologia del contratto sottoposta alla discrezionalità giudice del lavoro. Per chi se ne fosse dimenticato: il decreto dignità fu varato, tra ricchi premi e cotillonos, dal Conte 1, ma la sua applicazione venne ben presto sospesa, da un provvedimento del Conte 2 in conseguenza degli effetti negativi prodotti nel mercato del lavoro, durante la pandemia.

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