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Contrastare l’evasione fiscale è importante ma non basta a rilanciare l’economia

Il tema dell’evasione “di sopravvivenza” sollevato con clamore qualche settimana fa dal vice-ministro dell’economia e delle finanze Fassina non è questione che si può tener distinta da quella della politica di “austerità” dettata dal patto fiscale europeo. Come ogni altro governo della zona euro, anche quello italiano è costretto ad agire all’interno di margini sempre più stretti. E in assenza di un governo europeo dell’economia, le polveri delle munizioni dei governi nazionali (anche quelle per combattere l’evasione) sono bagnate.

Lasciando da parte il “benvenuto tra noi” rivolto al vice-ministro da un movimento politico il cui capo ha subito una condanna definitiva per frode fiscale, gli interventi più critici hanno inteso soprattutto richiamare la centralità di due aspetti irrinunciabili: il valore della lealtà tributaria e l’importanza di una distribuzione più equa del carico fiscale. Non mi pare però che la questione possa risolversi qui. Correggere un problema strutturale il cui peso è stimato attorno al 20% del Pil richiede una strategia lungimirante in grado di conciliare l’obiettivo di una maggiore equità con quello del rilancio dell’occupazione.

Da anni, i rapporti sull’economia sommersa disegnano un paese in cui il problema non è certo quello di scovare qualche nuovo evasore, quanto piuttosto quello di contrastare un sistema che in taluni settori ha assunto le sembianze della normalità. Affinché la lealtà fiscale si affermi come norma occorre renderla conveniente, e tuttavia il sistema tributario italiano rimane, come ha ricordato Salvatore Padula, complesso e arbitrario. Il carattere strutturale dell’evasione ha poi anche un’altra preoccupante conseguenza: il calcolo di redditività dei singoli produttori che operano in quei settori dove più si concentra l’evasione si basa sul presupposto di un’evasione parziale degli obblighi fiscali. In condizioni simili, regolarizzare un intero settore col suo indotto avrebbe conseguenze sull’attività e sull’occupazione.

La strategia si complica ulteriormente in un’economia stagnante come l’attuale. Dal 2010 le regole fiscali europee hanno fatto ulteriormente crollare la domanda dopo la caduta già impetuosa della recessione mondiale del 2008-09, ed è plausibile che la contrazione del reddito prodotta dalla recessione abbia fatto ulteriormente salire la quota del sommerso. Ci piaccia o no, azzerare in un sol colpo l’evasione in settori dove l’evasione è stata a lungo colpevolmente tollerata manderebbe la redditività sotto zero, e finirebbe anche per fiaccare pericolosamente il consenso politico alla lotta all’evasione.

È certamente dannosa la posizione di chi preferisce continuare a far finta di niente di fronte ad una quota di sommerso che non ha eguali in valore assoluto in tutta l’Unione Europea. Ma è altrettanto infondato volersi affidare alla lotta all’evasione per rilanciare l’economia, perché non è vero che distribuire più equamente il carico fiscale significa automaticamente stimolare la parte del paese che si troverebbe finalmente meno tartassata a creare posti di lavoro. Un’efficace lotta all’evasione rende più equa la distribuzione del carico fiscale, ma non è in grado di rilanciare l’economia.

Nelle prossime settimane si discuterà se aumentare l’iva al 22% dal primo di ottobre. Ciò equivale a sottrarre altri 4 miliardi di euro all’anno dai risparmi complessivi degli italiani. Un’ipotesi prudente indica che ciò comporterebbe un calo del Pil di un altro terzo di punto. Ma supponiamo che invece di aumentare l’iva si riuscisse a ridurre la quota del sommerso e far crescere di 4 miliardi all’anno le entrate tributarie. L’operazione sarebbe encomiabile, ma secondo la contabilità nazionale sottrarrebbe tante risorse finanziarie al paese quante ne sottrae l’aumento dell’iva. Alla maggiore equità corrisponderebbe comunque una maggiore pressione fiscale complessiva e un’ulteriore perdita di posti di lavoro.

Per impedire che un’operazione di equità fiscale contribuisca a ritardare ulteriormente la ripresa la riduzione del sommerso dovrebbe almeno andare di pari passo con una riduzione generalizzata delle aliquote fiscali. Ma, ed è questo il punto, persino in questo caso non potremmo aspettarci benefici macroeconomici di rilievo. È giusto redistribuire il carico fiscale dai soliti tartassati a chi finora l’ha fatta franca, ma ciò non toglie che gli euro complessivamente a disposizione del settore privato restino esattamente gli stessi: comunque insufficienti a sostenere la ripresa.

Il senso di questo ragionamento è che la lotta all’evasione non va confusa con il rilancio del reddito e dell’occupazione. Piuttosto, è vero il contrario: per rendere più efficace la lotta all’evasione occorre agire contemporaneamente sul fronte del rilancio della domanda, e dunque del fatturato delle imprese e dell’occupazione. E questo ci riporta ancora una volta al problema dell’assenza di una governance europea e all’illusione che i singoli governi dispongano di margini di manovra che non hanno più.

In un’ottica macroeconomica, le considerazioni sull’evasione “di sopravvivenza” sono dunque anche più amare e denunciano la strettoia quasi impossibile in cui si trova l’Italia. L’austerità nei singoli stati e la mancanza di una politica comune dell’occupazione minaccia la sostenibilità sociale in Europa, un pericolo già evocato da Mario Draghi. E spetta al Consiglio Europeo agire, riconoscendo che è responsabilità dell’Europa quella di garantire al settore privato le risorse finanziarie sufficienti da generare una domanda complessivamente in grado di creare posti di lavoro.

Per conseguire questo risultato l’Europa deve dare priorità ad iniziative coordinate che creano potere d’acquisto compensando l’austerità nazionale: progetti concordati di investimenti pubblici e/o riduzioni generalizzate delle imposte. Ad esempio: un dimezzamento dell’iva in tutti i paesi dell’euro accompagnato da un’emissione equivalente di eurobond emessi dall’European Stability Mechanism e garantiti dalla BCE.

Una volta ripartita l’occupazione, la priorità andrebbe assegnata ad iniziative coordinate che mirano a rendere più equi i sistemi fiscali che meno lo sono, come quello italiano. Limitandosi a fare affidamento sulle esportazioni, e quindi sulla domanda creata altrove, l’Europa si sta auto-condannando ad un ruolo subalterno nell’economia mondiale che stride con l’abbondanza di risorse di capitale umano di cui ancora (e forse non per molto) dispone.

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