Nella gestione della crisi dell’Euro si stanno ricommettendo gli stessi errori della crisi del ’29 quando fino allo stremo si lasciarono fare i mercati fino al punto di vederli sprofondare nella deflazione-depressione. I mercati e le banche non possono proteggere l’Euro ma possono distruggerlo rendendo fragili, uno dopo l’altro, gli stati che se ne fanno scudo.
Siccome è bene che le banche possano fallire e che i loro cattivi manager possano pagare, al pari dei loro cattivi azionisti, e dato che non ci sono capitalisti in giro pronti a subentrare nel capitale, perché non nazionalizzarle? I fondi “salva banche” e “salva stati” potrebbero servire a una (sovra)nazionalizzazione “a termine”, con l’impegno cioè, se conviene, di trasformare ogni grande banca in uno “spezzatino” da rimettere sul mercato a tempo debito.
Le acque agitate dei mercati tornerebbero più calme. Forse si avrebbe un guadagno in termini di concorrenza. Non è detto che nella transizione ci debbano essere perdite in efficienza: non sempre le nazionalizzazioni sono state sinonimo di inefficienze (anche il “capitalismo comunista” cinese lo dimostra). Un impegno a riprivatizzare sarebbe un incentivo costruttivo per i manager di stato a non diventare boiardi e per i politici a non invadere il campo.
Soprattutto non sarebbero i soliti noti a perdere: i cittadini come depositanti o gli stessi come contribuenti. Dovrebbe essere un dovere proteggere gli stakeholder (coloro che hanno diritti da reclamare), non gli shareholder.
Repressione finanziaria e liberalizzazione finanziaria sono diventate da anni le due soluzioni, alternative e senza vie di mezzo, panacea di ogni male. L’esperienza storica ci insegna a guardare le cose in maniera meno manichea e più pragmatica. Ci sono ragioni che hanno spinto in una direzione o nell’altra in maniera fanatica. Si potrebbero riepilogare così. Principi e governanti sono stati da sempre inclini a limitare la libera impresa nell’offerta dei servizi finanziari per due motivi. Per esercitare la propria sovranità sulla moneta e per dar soddisfazione all’opinione popolare.
Per un governo il mezzo più facile per ottenere un credito a buone condizioni è di contrarlo nella valuta nella quale si esigono le tasse e si rende giustizia presso le corti in nome e per conto dell’autorità sovrana del momento. La moneta con l’effige e le armi del proprio principe regnante, distinta dalle altre, esprime tale esigenza. E’ un potere molto dimezzato finché le armi restano impresse in conio su dischi in metallo prezioso. Non lo è più quando il principe dichiara bancarotta contro banchieri inermi e costretti a subire tutte le conseguenze del caso. Solo la cartamoneta diventa l’espressione più alta di un potere sovrano nazionale e, questo, solo dal XIX secolo.
Le banche d’emissione nascono come banche di stato (anche se gestite da banchieri privati) per finanziare le spese pubbliche straordinarie, specialmente in caso di guerra. L’Inghilterra nel corso del XVIII ha già una banca d’emissione affiancata a un sistema fiscale fondato sulla promessa che lo stato onora i propri debiti. La promessa è credibile e vincolante perché ci sono nuove istituzioni: monarchia costituzionale, parlamento eletto da chi paga le imposte subito, o in futuro per coprire i debiti dello stato (un’innovazione finanziaria quest’ultima per dilazionare le imposte e non strangolare subito i contribuenti). In questo modo l’Inghilterra diventa grande, si industrializza e vince tutte le guerre successive.
Andare poi incontro all’opinione popolare di rendere meno rapaci i banchieri conveniva ai debitori strutturali (stato e poveri) interessati a tenere bassi i tassi d’interesse, a creare banche non profit (monti di pietà, casse di risparmio e banche cooperative) per tenere a freno i banchieri. Finché sussiste questa convergenza di interessi, banche private e mercati finanziari subiscono restrizioni, in varie forme, alla propria libertà d’azione. Gli spazi per le banche private sono limitati da quelli occupati da istituzioni creditizie non profit e dalle dimensioni, spesso marginali, dei mercati di borsa.
Il sistema così congegnato è però a rischio di abusi. Quelli più gravi hanno generalmente una conseguenza: l’inflazione. La moneta creata a fronte di ingenti spese statali finisce per perdere di valore, per impoverire i percettori di redditi fissi e per arricchire molti di coloro che possono vendere beni e servizi a prezzi crescenti. Le fiammate inflazionistiche o gli aumenti persistenti dei prezzi finiscono per logorare la società e l’economia nazionale.
Correre ai ripari è possibile e viene fatto in varie maniere vincolando le possibilità di spesa dei governi, le facoltà della banca centrale di emettere carta o di entrambi, attraverso sistemi ingegnosi, fatti passare anche per “naturali”, come, ad esempio, le forme di ancoraggio all’oro della moneta nazionale, a una moneta estera, a un paniere di monete. Nel caso recente dell’UE e della BCE si è addirittura impedito alla banca centrale di prestare agli stati membri ma anche all’Unione. Una rinuncia così radicale alla sovranità monetaria ha pochi precedenti. Era avvenuto con la riforma della Banca d’Inghilterra nel 1845.
Quando però ci si accorse che la Banca aveva strumenti solo per fare deflazione e non poteva far crediti alle banche sull’orlo del fallimento, il parlamento “sospendeva” la legge per evitare crisi finanziarie devastanti per tutti. In genere l’adozione di misure così estreme (in senso di “lasciamo che i mercati si regolino da sé”) era giustificata da un’esperienza di grandi inflazioni: durante le guerre napoleoniche, l’iperinflazione tedesca del 1922-23, l’inflazione degli anni ’70. Non ci sono, tuttavia, serie ragioni per amputarsi una gamba per impedire di farsi male correndo, quando può sempre servire per deambulare e vivere meglio. Solo una diffidenza estrema verso la discrezionalità di governo può, in qualche maniera, essere alla base di misure così cieche e irresponsabili.
Le liberalizzazioni finanziarie non avevano osato fino a tal punto. Questa volta la carta del populismo è stata giocata contro gli abusi dei sovrani in regime di repressione finanziaria e per giustificare misure opposte. Nei periodi di inflazione (ma anche di deflazione) monta anche la diffidenza, se non l’ostilità, popolare verso i governanti del momento accusati di incapacità o peggio, e talora a ragione, di corruzioni varie.
La soluzione semplice che per ristabilire giustizia basti liberalizzare e aprire il mondo alla concorrenza trova ampi consensi quando si crede che banca e finanza forniscano solo una merce come un’altra (il credito) e che liberalizzando completamente il settore si ottengano gli stessi benefici di prezzi bassi ottenuti attraverso la liberalizzazione dei servizi di trasporto aereo o di telefonia.
Dopo la grande crisi del 1929 si erano diffusi quasi ovunque regimi di repressione finanziaria (più o meno forte) perché le banche e le concentrazioni finanziarie erano ritenute le cause principali del disastro. Per avere un buon sistema industriale occorreva riportare alla ragione banchieri e speculatori attratti da guadagni facili e immediati, con comportamenti contagiosi per il resto della società e distrazioni di risorse – si diceva – da impieghi più produttivi. Gli stati si riappropriarono allora di una sovranità monetaria che da decenni avevano ceduto ai mercati.
Attualmente il giudizio sull’azione dei governi è lasciato (alle agenzie di rating e) ai mercati che in base alla volatilità che esprimono, paiono avere poche idee e molto confuse, facili al panico. Sta ai governi non farle diventare certezze. Le banche che hanno investito in titoli di cattivi governi (ma, non dimentichiamolo, hanno fatto anche investimenti peggiori) si trovano nella condizione di dover essere salvate (spesso) da quegli stessi governi.
Di conseguenza i governi avranno finanze ancor più disastrate, con peggioramenti ulteriormente dei rating delle banche salvate e, a ruota, dei titoli pubblici. Poiché, di fatto, non esiste più l’istituto capitalistico del fallimento per le banche (too big to fail) non ha molto senso reintrodurlo per gli stati: sarebbe la soluzione di insolvenza tipo quella dichiarata da Carlo V nel 1527 poche settimane prima del sacco di Roma da parte delle sue truppe. L’impero era “sacro”, ma il suo stato non era “di diritto” come – per ora – lo sono i nostri.