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Confindustria, più coraggio di fronte al sistema politico

L’immagine della Confindustria che esce dalla storia economica italiana di questo dopoguerra è quella di una istituzione che rappresenta una parte sociale, ma è capace di indirizzare la sua azione e le sue proposte ad obiettivi di interesse generale, per lo più ispirati da una visione liberale dell’economia e della società: l’espressione, insomma, della capacità della classe imprenditoriale italiana di porsi come forza di riferimento, anche politico, per la crescita e lo sviluppo del paese.

 

Questa almeno la lezione che si trae dall’appoggio della Confindustria di Angelo Costa alla scelta libero-scambista e all’entrata nel mercato comune; dalle posizioni a favore dell’impresa, del libero mercato e della concorrenza di fronte al dilagare dell’intervento pubblico negli anni ’60 e ’70; dalla denuncia dei pericoli dell’inflazione e l’appoggio al Governo per l’adesione all’euro negli anni ‘90. In tutti questi casi il vertice di Confindustria ha saputo indicare al paese, ma anche alla sua base, non sempre unanime, l’opportunità di scelte basate sulle esigenze di modernizzazione e internazionalizzazione, ponendosi come controparte del tutto autonoma del sistema politico.

 

Ci si è potuti chiedere, al volgere del secolo, se di questo ruolo della Confindustria ci fosse effettivamente ancora bisogno: la fine della Prima Repubblica è sembrata coincidere con la piena adesione, da entrambe le parti del sistema politico, ad una visione liberale del mercato e dell’economia. Le grandi riforme che hanno comunque avuto luogo nella seconda parte degli anni ’90 hanno dato luogo ad un sostanziale, pur se incompleto, processo di privatizzazione, di liberalizzazione, di integrazione del mercato italiano in quello globale, nell’ambito delle più vasto processo comunitario, culminata nell’adesione all’euro. Forse, si è potuto pensare, quell’impegno sui temi generali non era poi così necessario: diventava invece giustamente più urgente l’attenzione ai temi della rappresentanza di interessi e alla contrattazione, con governi che sembravano, in effetti, più che in passato, sensibili ai temi proposti dalla parte imprenditoriale.

 

Purtroppo questa conclusione non si è rivelata valida. In questi ultimi dieci anni le spinte al rinnovamento sembrano essersi esaurite. Nel contesto internazionale più difficile degli anni 2000 si è allentata la spinta modernizzatrice proveniente dall’Unione Europea: sono prevalse le spinte e gli interessi particolari, ed è emersa nella politica, a destra come a sinistra, la difficoltà di elaborare strategie di liberazione delle ingenti risorse di cui pure il paese dispone. Lo testimoniano il sostanziale blocco dei processi di liberalizzazione e privatizzazione nell’ultimo decennio, ma anche la cronaca di queste settimane, caratterizzate da proposte per un crescente ruolo dell’intervento pubblico diretto e indiretto nel settore produttivo e finanziario, di stampo sostanzialmente protezionistico e di tutela delle posizioni di potere esistenti, senza che tra le forze politiche si sia attivato alcun dibattito. E non si tratta solo di un problema di chi sta al governo: mentre l’opposizione subisce passivamente proposte governative su temi quali l’investimento estero, l’intervento pubblico su settori strategici e financo la disciplina dell’OPA, che a suo tempo era stata pensata per rendere finalmente più aperto l’asfittico sistema di controllo delle imprese italiane, non riesce a sottrarsi a posizioni sindacal-conservatrici nell’affrontare i temi della riforma del mercato del lavoro, dell’istruzione e dell’università e dei servizi pubblici locali.

 

In sostanza, il sistema politico nel complesso non sembra proprio all’altezza di elaborare e attuare i cambiamenti profondi nella struttura dei mercati, delle istituzioni economiche e della governance necessari per consentire al paese di uscire dalla stagnazione da cui è stato bloccato per un decennio. Per fortuna un paese non è solo il suo sistema politico: come in un passato non lontano, sembra cadere sulla classe dirigente e sulle rappresentanze delle forze sociali la responsabilità di proporre soluzioni, al di là dell’interesse particolare, confrontandosi con chi a confrontarsi sia disponibile.

 

Certo, le rappresentanze di interessi non possono e non debbono sostituirsi alle forze politiche: ma possono incalzarle affinché facciano il proprio lavoro, cioè elaborino e attuino una Politica, con la P maiuscola, di crescita, nell’interesse del paese. Da questo punto di vista, non mancano alle rappresentanze imprenditoriali chiarezza di analisi e proposte, elaborate in questi anni sia da Confindustria che dalla sua cugina più dedicata agli studi e meno alla politica, l’Assonime. E’ forse mancata, in questi anni, una visione sufficientemente critica della capacità degli interlocutori. Purtroppo, è giunta l’ora di essere critici, sia pure con finalità costruttive, costringendo i soggetti politici a rinnovarsi nelle idee, negli strumenti di analisi e nelle proposte; così facendo ancora una volta valere il ruolo di esponente di una delle componenti più vitali del paese che Confindustria ha avuto e continua ad avere.

Leggi l’intervento di Giorgio Fossa

Già Segretario generale dell’Autorità Antitrust


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