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Confindustria: la Cina cresce meno ma offre sempre grandi opportunità

1. Le fonti della crescita cinese: go west policy, urbanizzazione e produttività

L’obiettivo minimo di avanzamento del PIL nel 2012, fissato da Pechino al 7,5%, rappresenta l’incremento annuo più basso dal 1990 e inferiore al 10,2% medio conseguito dal 2000 in poi (Grafico A). Ma pur così ridotta, la dinamica della Cina contribuirà comunque a un terzo della crescita globale di quest’anno stimata dal Fondo monetario al 3,5%, grazie all’aumento del peso dell’economia cinese sul PIL mondiale (14,3% nel 2011;era al 7,1% nel 2000).

La crescita dei prossimi anni verrà in misura sempre maggiore dalle regioni centrali e occidentali, che continueranno il processo di convergenza verso i livelli di PIL procapite già raggiunti dalle zone costiere, le più sviluppate, come fortemente voluto dal Governo attraverso la go west policy. Il loro sviluppo deriva dallo spostamento della produzione verso aree più competitive in termini di costo del lavoro (Grafico B), secondo un meccanismo ben noto e osservato in passato. Le aree interne del Paese già da metà anni 2000 crescono più velocemente di quelle della costa e il loro peso economico sta aumentando: a fine 2011 aveva raggiunto il 44% del PIL nominale, dal 40% del 2005 (ultimi dati dell’istituto di Statistica cinese).

Il ritmo medio nazionale di crescita del PIL sarà più lento ma la varianza tra le province rimarrà elevata, giacché molte di esse continueranno ad avanzare a ritmi a due cifre nei prossimi anni, offrendo nuove opportunità alle imprese italiane, in termini di localizzazione della produzione e di ampliamento dei mercati di sbocco. Un’altra fondamentale e solida fonte di sviluppo nei prossimi anni, questa volta estesa a tutto il paese, è l’inarrestabile processo di urbanizzazione: oltre dieci milioni di cinesi ogni anno si spostano dalle campagne alle città, attivando nuova spesa in infrastrutture e domanda di alloggi e contribuendo all’aumento del monte-salari e allo sviluppo della classe media. Si stima che entro il 2020 vi saranno almeno 100 milioni di nuovi residenti nei centri urbani, per un totale di 750 milioni e ciò porterà la popolazione a superare il milione di abitanti in quasi 200 città.

Una terza importante fonte di crescita continuerà a essere costituita dall’aumento della produttività: negli ultimi quarant’anni la produttività del lavoro, calcolata come rapporto tra PIL a prezzi costanti e occupati, è cresciuta del 1.500% e dal 2005 al 2011 dell’84%, a un tasso medio annuo del 10,7% (Grafico C). Ciò è stato determinante nel generare le risorse per i forti aumenti delle retribuzioni e il processo non accenna ad arrestarsi grazie al continuo spostamento della forza lavoro dall’agricoltura all’industria e al terziario e al riposizionamento della manifattura verso settori a maggior valore aggiunto. L’aumento delle retribuzioni alimenta il potere d’acquisto delle famiglie e i consumi.

2. I nodi irrisolti: riequilibrio delle componenti della domanda e riforma del settore bancario

Tutto ciò non toglie che il modello di crescita cinese sia diventato inadeguato rispetto allo stadio di sviluppo raggiunto dall’economia. Il paese deve affrontare una serie di nodi strutturali che nel medio termine potrebbero minare la stabilità sociale, condizione necessaria per la legittimazione del potere politico. Del resto tutti i paesi che navigano verso la maturità economica sono soggetti a importanti fasi di transizione e di discontinuità in cui le poste in gioco sono alte e gli aggiustamenti non indolori. È già successo negli anni Sessanta in Giappone e nei Settanta in Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong. Un primo nodo da sciogliere è il riequilibrio della domanda interna tra consumi e investimenti (Grafico D).

I secondi sono stati negli ultimi anni il vero traino dell’economia cinese: le spese per impianti, macchinari, edifici e infrastrutture hanno rappresentato il 46% del PIL nominale nel 2011, mentre le esportazioni, che nel 2006 avevano raggiunto il picco del 39%, ora incidono molto meno (29% nel 2011). I consumi delle famiglie, che in teoria dovrebbero essere lo scopo ultimo dell’attività produttiva, contano soltanto per un terzo del PIL. Ciò non significa che la Cina non abbia bisogno di fare più investimenti, ma che le politiche economiche dovrebbero spingere l’aumento dei consumi più di quello degli investimenti, come già indicato chiaramente nelle direttive del dodicesimo Piano quinquennale. La spesa per investimenti non risulta squilibrata rispetto alla mole dei risparmi, che è elevatissima: 54% del PIL nel 2011.

Inoltre la dotazione di beni capitali pro capite è ancora molto bassa: pari a un quarto di quella degli Stati Uniti, se calcolata a PPA. Ad esempio, nonostante il mercato immobiliare traballi, perché i prezzi sono saliti molto e ci sono tante abitazioni invendute, c’è un alto fabbisogno insoddisfatto di case: nel 2010 c’erano circa 150 milioni di alloggi nei centri urbani, 85 milioni meno del numero di famiglie urbane residenti (ultimi dati disponibili). D’altro canto, il peso dei consumi sul PIL è in calo da dieci anni, nonostante essi siano aumentati in Cina più che in tutti gli altri principali paesi mondiali.

Bisogna considerare, però, che i consumi si adeguano alle variazioni del reddito con un certo ritardo temporale; ciò perché le intenzioni di spesa si formano sulla base delle abitudini che si sono radicate in passato, plasmate da una cultura contadina parsimoniosa, con pochi bisogni da soddisfare e lenta da mutare, e sono dettate dalle attese ex-ante sul livello futuro del reddito, attese che nelle fasi di forte sviluppo vengono sistematicamente superate dalla crescita effettiva del reddito stesso e producono così un tasso di risparmio involontariamente molto più elevato del programmato. Un fenomeno che si è già osservato, per esempio, in Italia negli anni del boom economico.

Quindi, così come la crescita dei consumi è salita in passato più lentamente di quella dei redditi, generando a posteriori un’elevata propensione al risparmio, allo stesso modo avverrà l’opposto negli anni a venire. In conseguenza della minore crescita del PIL, l’aumento dei redditi frenerà ma quello dei consumi molto meno, o affatto, e così il loro peso sul PIL aumenterà. Questa forma di aggiustamento da sola non è tuttavia sufficiente a ribilanciare le componenti della domanda interna. Per favorire un sostanziale e stabile aumento dei consumi è necessario continuare a rafforzare la rete di sicurezza sociale (sanità e pensioni), le cui carenze accentuano le motivazioni previdenziali e precauzionali del risparmio.

Secondo la Banca mondiale, la Cina spende il 5,7% del PIL in reti di protezione sociale, rispetto al 12,3% medio dei paesi emergenti nella stessa fascia di reddito procapite. Molti studi dimostrano che una maggiore spesa sociale favorirebbe i consumi, diminuendo proprio l’elevato risparmio precauzionale: si stima che un aumento di un punto percentuale della quota della spesa sociale sul PIL, diviso equamente tra sanità, istruzione e pensioni, porterebbe a un aumento dell’incidenza dei consumi delle famiglie sul PIL di 1,25 punti percentuali.

Inoltre, secondo altri calcoli, nelle aree urbane ogni yuan aggiuntivo speso dal Governo per la sanità pubblica libererebbe due yuan di spesa per consumi. Un secondo nodo da sciogliere riguarda il sistema bancario. Le misure di stimolo dell’economia per far fronte alla crisi hanno innescato un boom creditizio: dal 2008 al 2009 l’indebitamento del settore privato è balzato dal 103,7% del PIL al 127,2%, un aumento di 23,5 punti in un anno, attestandosi al 127,4% del PIL nel 2011 (fonte FMI; per la Cina, questo dato include i prestiti alle imprese statali).

Un salto così pronunciato e concentrato nel tempo non è ripetibile e può causare squilibri finanziari. Tuttavia vi sono due grandi peculiarità, rispetto agli altri paesi, che rendono il sistema bancario cinese più resistente, paradossalmente per gli stessi motivi per cui risulta inefficiente: primo, la Cina può contare su un elevatissimo numero di risparmiatori che non possono indirizzare altrove i propri capitali, in termini sia di intermediari sia di paesi in cui investire (in ciò ricorda molto l’autarchia finanziaria dell’Italia negli anni 70 e 80); secondo, nessun credito incagliato diventa perdita se non se ne chiede il rimborso, quindi è poco probabile che lo Stato, che possiede sia le banche creditrici sia le imprese pubbliche debitrici, inneschi tale meccanismo.

Ciò non toglie che il sistema vada profondamente riformato, come più volte ribadito dall’attuale leader politico, Wen Jabao. Il governo sta muovendo alcuni primi passi, ad esempio introducendo una graduale liberalizzazione del tasso di interesse sui depositi bancari, attualmente vincolato a un determinato tetto. Se questo tetto fosse innalzato, le piccole banche avrebbero più spazio per offrire condizioni migliori ai risparmiatori, spiazzando in parte le grandi. In Cina, la ricerca di rendimenti più elevati ha spinto i risparmiatori più abbienti a investire nei cosiddetti “prodotti di gestione della ricchezza”, particolari strumenti di risparmio a breve termine che offrono una migliore remunerazione del capitale; alla fine del primo trimestre 2010 (ultimi dati disponibili), questi prodotti ammontavano a 10,4 trilioni di yuan, pari al 12% dei depositi.

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La loro recente proliferazione (con il benestare della Banca centrale) sta di fatto anticipando la liberalizzazione dei tassi di interesse. Le riforme, e in generale le politiche economiche, hanno un passo rallentato in questa fase perché è in corso il decennale cambio di leadership. Per avere un’accelerazione occorrerà attendere che i nuovi vertici si insedino e assumano il pieno controllo.

Ciò detto, la Cina resta una vitale fonte di crescita globale e la sua rilevanza internazionale è destinata ad aumentare. Oltre a essere primo esportatore mondiale (10,4% dell’export globale nel 2011) e prima potenza industriale (21,7% della produzione mondiale) è anche un importantissimo investitore. Il dragone sta scalando la classifica dei paesi che generano i maggiori flussi di IDE in uscita, salendo nel 2010 al quarto posto (5,1% degli investimenti diretti esteri mondiali). Gli IDE realizzati dalle imprese cinesi sono in costante crescita, dai 10,2 miliardi di dollari nel 2005 ai 72,7 nel 2011, e sono per lo più indirizzati in settori di enorme rilevanza strategica per l’approvvigionamento energetico e di materie prime.

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