Gli industriali bresciani sembrano voler dimenticare il passo falso che, per la seconda volta, ha messo a nudo i limiti della loro Associazione (l’AIB) nel tentativo di portare il proprio presidente ai vertici della Confindustria. Due tentativi andati a vuoto. Due brucianti insuccessi. Due imprenditori – prima Bonometti e poi Pasini – messi a rosolare sulla graticola delle velleità provinciali e del dilettantismo nella preparazione delle candidature. A Brescia, in privato, ci si domanda il perché. Alcuni sussurrano di una persistente anomalia bresciana fatta di ricchezza diffusa ma di altrettanta pochezza progettuale. Altri ancora, col senno di poi, zitti e ben defilati in tutti questi mesi, solo oggi rimproverano alla AIB di aver partorito a freddo una candidatura nata male, gestita peggio, finita disastrosamente. Questo è il caso del commento apparso su un quotidiano della città. Un ex direttore dell’Associazione, nell’assolvere il candidato infilzato dal voto, indica come urgente via d’uscita la cacciata del direttore di turno, ritenuto come l’unico responsabile della fallita spedizione e quindi l’agnello da sacrificare sull’altare del Fato e del Destino cinico e baro. Di questo passo è facile già prevedere la prossima terza sbandata.
Le cose stanno diversamente e i fatti sono più tosti delle chiacchiere distribuite a man bassa prima, durante e dopo la marcia verso il nulla; un cammino basato esclusivamente sulla comunicazione, quasi sempre tenuta dentro le mura cittadine, ben sostenuta e ben foraggiata. Anche le uscite sulle testate nazionali hanno avuto l’impronta delle manine dei promoter di mestiere in quelli che un tempo si chiamavano “soffietti”. Spesso a Brescia si abusa del ricordo di Luigi Lucchini. Ma negli anni Settanta, preparatori alla presidenza di Confindustria, le sue interviste portavano le firme di Bocca, Pansa, Turani, Scalfari, Aspesi, Boneschi, Modolo e compagnia crescendo. In quegli anni i “tondinari” entravano, dopo vent’anni di esclusione, nel Comitato della CEE, fino ad allora riservato all’industria di Stato e ai potentati delle dinastie private. L’industriale sceso dalle Valli, non gradito nell’azionariato storico delle Banche bresciane, non si mise in fila, disciplinato, aspettando il turno della chiamata. Si è guardato attorno diventando l’azionista privato più forte della Banca Commerciale Italiana.
Lasciamo la storia per tornare alla cronaca. Oggi è assolutamente chiaro che il vero candidato della burocrazia centrale che da anni governa la Confindustria era Licia Matteoli. Altrettanto chiaro il fatto che la direttrice Marcella Panucci abbia tramato con i referenti bresciani per far nascere l’improvvida candidatura di Giuseppe Pasini, evocato come Lazzaro, perché uscisse anzitempo dal sepolcro al solo fine di mettere confusione e divisione nel campo lombardo. FIRSTonline lo ha scritto in tempi non sospetti e i fatti, alla fine, lo hanno confermato. Dove allora cercare le ragioni dell’insuccesso? Mi pare del tutto inutile rimestare negli abusati schemi di una Città e di una Provincia ricche ma miopi. Non si spiegherebbe perché l’attuale Presidente della potente Coldiretti sia un bresciano e quello della Confapi pure.
Forse è l’ora di guardare con realismo dentro casa e rileggere la storia recentissima di un’Associazione che ha tenuto alla stanga dell’opposizione interna tutti i suoi ex presidenti; che ha mortificato nel segreto dell’urna, escludendoli dal Consiglio generale, alcuni eredi di industrie storiche; che ha affidato la direzione associativa ad un esponente della Compagnia delle Opere, a lungo avversaria dichiarata dell’AIB, nel momento in cui declinava, in modo irreversibile, il potere territoriale di CL e quello politico di Roberto Formigoni.
Una Associazione che ha perso per strada il nerbo del pragmatismo civile per indossare la livrea del “politicamente corretto” fino al punto di legittimare il tavolo di una Prefettura quale luogo permanente del confronto sociale, economico e sindacale. Per la verità non senza celare il fatto che in quelle stanze poteva maturare la corsia preferenziale al Cavalierato del Lavoro. Tant’è che negli ultimi anni gli imprenditori bresciani insigniti sono stati più numerosi rispetto a quelli di tutta la precedente secolare vita del prestigioso Ordine. Il “politicamente corretto” non ha permesso decisioni imprenditoriali sulla Fiera di Brescia, ad esempio, tutt’ora destinata all’inutilità promozionale e al rosso persistente dei suoi bilanci. Non ha permesso iniziative significative nella difesa delle Banche storiche a cui si deve gran parte del successo industriale ed economico di Brescia. A differenza degli imprenditori bergamaschi uniti e decisivi nel destino di Ubi, la storia della Banca San Paolo, del Credito Agrario e della Banca di Valle Camonica è caduta, come nel gioco del domino, una dopo l’altra. Quanti gli esponenti industriali in quei Consigli di Amministrazione? Tutto questo mentre il credito del Paese veniva governato da un bresciano, Giovanni Bazoli, il più potente dei banchieri italiani, secondo solo a Raffaele Mattioli ed a Enrico Cuccia.
L’ultima Municipalizzata rimasta in casa, la Centrale del Latte, lo è ancora perché difesa a viso aperto dal mondo dell’agricoltura e da un management bresciano sordo alle sirene dei grandi gruppi industriali del food. Sanguina permanentemente la ferita delle avventure finanziarie, tutte bresciane, che hanno coinvolto molti imprenditori di rango, travolgendo nella speculazione fortune accumulate con il lavoro dei padri. Ancor maggiore è stato il danno arrecato alla formazione dell’attuale generazione imprenditoriale, spesso cresciuta nel primato di una finanza d’assalto e di un capitalismo delle relazioni. Velocità di accumulazione, poca fatica, molta fortuna: valori lontani, se non estranei, alla cultura del lavoro, dell’investimento, della crescita.
Molti di questi, anche per ragioni anagrafiche, oggi sono ai vertici associativi. Alcuni tra i più prestigiosi industriali dalle radici manifatturiere hanno riversato crescenti attenzioni e risorse finanziarie sulla speculazione edilizia, caratterizzandosi come veri gestori del territorio e silenziosi regolatori della rendita e della espansione urbanistica. Una miscela di commistione col potere politico fatta di compromessi e di favori di scambio. Alla fine, ora, rimane uno stock impressionante di immobili invenduti e la scomparsa, conseguente, di tutte le prestigiose, secolari, imprese edili bresciane.
Niente nomi per carità di Patria. In altre vicende di minor spessore si è vista all’opera la grinta di questi industriali come nella sanguinosa faida per la Presidenza dell’Automobile Club che controlla il business della Mille Miglia storica. Uno scontro all’arma bianca che ha spaccato verticalmente l’intero mondo della Brescia imprenditoriale e che pesa ancora adesso nella persistente frattura associativa. Se si varcano i cancelli delle aziende si incontra un mondo del tutto diverso. Sembra di vivere in un’isola felice, lontano dai cerimoniali del “politicamente corretto”. Una realtà fatta di buon lavoro, di mercati internazionali, di prodotti di eccellenza, di marchi diventati l’orgoglio dell’Italia. Si tocca con mano una dicotomia concreta se rapportata alla realtà dei comportamenti delle loro rappresentanze associative.
Forse perché dentro le mura degli uffici e delle officine il “politicamente corretto” viene lasciato in portineria e il sottile veleno della corte e dei cortigiani non ha intaccato il corpo vigoroso e vitale della produzione. La cortigianeria e il “politicamente corretto” sono il male che ha fiaccato il corpo associativo, lobotomizzato la sua memoria, il suo ruolo, rendendo indecifrabile l’orizzonte ed incerto il cammino. I cortigiani sguazzano in queste condizioni, abusano di inchini e intessono lodi anche quando preparano il veleno o celano il pugnale. Ma il bambino che urla “il Re è nudo” è arrivato anche a Brescia.
Si evoca spesso il nome di Luigi Lucchini ma si legge poco della sua lezione di vita e del suo cammino imprenditoriale. Sono di una attualità sorprendente le parole pronunciate dall’industriale di Casto davanti all’Assemblea che lo chiamava alla guida della Confindustria. Il bresciano d’acciaio, figlio di povera gente, legittimava la sua presidenza nell’aver potuto percorrere la storia del Paese nella libertà di intraprendere, di vivere in una società aperta, di poter agire nell’indipendenza del giudizio e delle scelte perché garantite e sostenute dall’autonomia della propria impresa e dalla sua ricchezza derivata dal lavoro. Rileggere, industriali bresciani! Altro che licenziare il direttore di turno.
View Comments (1)
Caro Ugo, ottima analisi.