Giorgio Squinzi ha raccomandato che la scelta del suo successore in Confindustria dovrà ricadere su un imprenditore manifatturiero. Il richiamo, che parrebbe ovvio, viene letto come un altolà al mondo delle aziende di servizio e delle grandi comodity che non disdegnerebbero manovrare per un vertice confindustriale governato da qualche illustre manager o da qualche personalità dell’economia e della finanza come lo fu Guido Carli.
Lo scenario che si aprirà al nuovo presidente sarà ben piu complesso. Infatti con le riforme istituzionali ormai al traguardo e con la legge elettorale la politica si presenterà con una maggior forza nelle sue decisioni, attuate con rapidità, senza i ritardi di un bicameralismo spesso inconcludente e padre di tutti i compromessi possibili. La Confindustria dei prossimi anni non potrà più contare sui tradizionali strumenti di pressione come è stato il consociativismo altalenante con i sindacati, l’interpartitismo nelle Commisioni e nelle Aule, il rinvio e l’ostruzione garantiti da piccoli gruppi di parlamentari. La futura lobby industriale, legittima se trasparente, si dovrà esplicare sul tavolo degli interessi da difendere, precisi e chiari. Per questo il nuovo Presidente sarà obbligato a battere strade nuove e probabilmente a cambiare molti dei meccanici che si affollano in disordine ai box confederali.
Le candidature emiliane di Alberto Vacchi e di Fabio Storchi (apparentemente concorrenziali) hanno messo già un punto fermo sulle scelte delle prossime settimane (estrazione dei Saggi e preparazione delle candidature ufficiali). Quella di Alberto Vacchi unisce alle radici imprenditoriali di successo della sua multinazionale IMA un territorio in grado di unirsi sia nella società civile (basta leggere la stampa locale) che nella politica che ha nei ministri Giulio Poletti e in Federica Guidi due accompagnatori di prestigio e di altrettanto peso.
Fabio Storchi, d’altro lato, sa benissimo che in piena e difficile fase contrattuale coi metalmeccanici di Landini e di Bentivogli non sarà possibile aggiungere anche la corsa della Confindustria. La sua “mossa” ha di fatto ipotecato la potente Federmeccanica intorno al suo Presidente impedendo che nella sua pianura potessero scorazzare le armate e i capitani di ventura di questo o di quel candidato.
Marco Bonometti è la prima vittima di questa tenaglia che i suoi consiglieri non hanno saputo né prevedere né evitare. E’ un peccato che l’industriale bresciano sia stato azzoppato più per la cecità dei suoi vicini che non dall’azione dei concorrenti diretti. Troppo incerto e poco incisivo è apparso il suo cammino fuori dalle mura della bresciana leonessa; insufficiente la comunicazione pur sostenuta da uno staff invidiabile per numero; altalenante e povero il messaggio costruito intorno al personaggio, alle sue idee e alle sue proposte. Chi scorresse la stampa nazionale e di opinione raramente incontra il pensiero, il giudizio, l’iniziativa dell’Associazione guidata da Marco Bonometti.
Infine Brescia paga pegno! La città non è più la Leonessa dei tempi di Luigi Lucchini. Allora la Brescia politica esprimeva Mino Martinazzoli, Sandro Fontana, Gianni Prandini. Vincenzo Balzamo e Sergio Moroni erano assai forti tra i socialisti. Giovanni Spadolini era fiero di una Brescia che aveva portato, per la prima volta, in Parlamento un deputato repubblicano. Valerio Zanone poteva contare sui liberali bresciani (Beretta in primis) per un sostegno alla sua azione di rinnovamento del partito di Malagodi. Gli uomini del ferro bresciani avevano vinto la loro battaglia in Italia e in Europa. La Municipalizzata di Brescia manteneva saldo il proprio primato nazionale nell’energia e nei servizi. L’economia della Provincia e il suo tessuto industriale risultavano esemplari. Per paradosso persino le pulsioni rivoluzionarie del sindacato di Claudio Sabattini e di Giorgio Cremaschi facevano parte del primato bresciano.
Oggi tutto questo non c’è più. L’aeroporto è perso. La Fiera è chiusa. La Municipalizzata è diventata milanese con la A2A. Gli scandali finanziari di qualche anno fa hanno lasciato profonde ferite ancora aperte. E’ difficile ricordare persino i nomi della rappresentanza parlamentare della più grande provincia del Nord. La capitale del tondino arranca e lo scettro dell’acciaio si è trasferito tra Vicenza, Padova e Udine. Il contesto territoriale non aiuta Marco Bonometti facendogli mancare il propellente necessario al decollo. La Lombardia confindustriale, inoltre, appare titubante ed incerta sulla sua candidatura: Bergamo, Milano, Monza e Varese temporeggiano per ostentare una diversa valutazione sulla sua corsa. Mantova non è in grado di mettere in campo in suo sostegno gli alleati di un tempo, da Steno Marcegaglia a Roberto Colanino e Cremona non ha più gli Arvedi e i Negroni.
In questo quadro il romano Aurelio Regina e il candidato del Sud potranno muoversi sul terreno delle alleanze e degli accordi anche se resi sempre più asfittici rispetto al bottino di un tempo. Le ambite poltrone della Luiss e del Sole 24 ore e le nomine in Enti e società non sono più numerose e remunerative come quelle di una volta. Per Marco Bonometti, che ha tanti numeri personali per una candidatura di successo, arriva il tempo di un cambio di passo capace di portarlo fuori dalle ristrette mura della provincia e lontano dagli ossequi ubriacanti delle piccole corti locali.