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Con Cibus le fiere ripartono, Mutti: “Una vetrina per l’agroalimentare”

Il mondo delle fiere riparte da Cibus, la kermesse dell’agroalimentare che apre i battenti martedì a Parma e torna in presenza dopo lo stop 2020 dovuto alla pandemia. Si tratta del primo appuntamento internazionale di una fiera dal vivo con espositori, visitatori, operatori del settore, dibattiti, presentazione di nuovi prodotti. Per partecipare è necessario il Green pass o altro documento analogo o un tampone nelle ultime 48 ore, perché business e sicurezza non possono più viaggiare separatamente nell’era Covid. A testimoniare l’importanza dell’evento per il mondo agroalimentare italiano e non solo arriveranno tre ministri (Di Maio, Patuanelli, Giorgetti, il presidente della Regione Emilia-Romagna Bonaccini, l’ex ministro e parlamentare europeo De Castro), ma anche i leader dell’agro-industria e della distribuzione a livello internazionale.

Si tratta di una vetrina fondamentale per il made in Italy, in uno dei suoi settori di punta, il cibo, e tra le grandi firme non può mancare Mutti, sinonimo di passata di pomodoro di qualità con 120 anni di storia. Nell’occasione Francesco Mutti, ad dell’omonima azienda e presidente di Centromarca, l’associazione italiana dell’industria di marca, parla della situazione, delle opportunità e delle sfide del settore in questa intervista rilasciata a FIRSTonlne.

Dottor Mutti, cosa rappresenta questa edizione di Cibus per il settore e quale spinta potrà portare? 

“È sicuramente un momento importante, da sfruttare con intelligenza e lungimiranza. È un’opportunità per incontrarsi, vivere dei momenti di riflessione comune e concentrarci su quelli che sono davvero i temi essenziali del mondo del food oggi, primo fra tutti la sua sostenibilità. Oltre a questo, una lezione che dovremmo aver imparato da questa pandemia, riguarda la centralità di avere una filiera internazionale forte e come essa vada salvaguardata e sviluppata in una visione di lungo termine. Mi auguro che questo messaggio riecheggi fortemente durante queste giornate”.

Il settore agroalimentare è uno di quelli che ha sofferto di meno durante la pandemia. Alcuni prodotti sono andati addirittura meglio perché le persone, costrette a stare a casa, avevano più tempo per cucinare. Il consumatore è cambiato in questo periodo? Cosa si aspetta nei prossimi mesi?

“Le vendite nella grande distribuzione hanno tenuto e la filiera ha retto alle difficoltà create dall’emergenza sanitaria, basti pensare alla logistica e al picco di domanda che si era scatenato a marzo 2020. Però è venuto a mancare il consumo fuori casa e quindi il canale Horeca. Detto questo, credo il consumatore continuerà, come ha fatto in questi mesi, a cercare sempre più la qualità nei prodotti che sceglierà: abbiamo bisogno di rassicurazione e di poterci fidare di quello che mangiamo. E questo è un volano importante e molto positivo, che potrà dare linfa al vero e sano “Made in Italy”.”

L’export sta crescendo e, probabilmente, nel complesso, l’Italia del cibo chiuderà l’anno meglio del 2019. Eppure il nostro cresce meno di altri paesi europei che non vantano le stesse eccellenze. Tutto il mondo vuole mangiare italiano, ma a fronte dei nostri 46 miliardi di esportazioni la Germania ne realizza 70 e persino l’Olanda ci surclassa. Cosa si può fare per migliorare questa situazione? 

“Se è vero che la maggior parte delle aziende italiane ha meno di 10 dipendenti e che lo 0,2% genera il 50% del nostro export, risulta evidente che il problema dimensionale diventa centrale. Il piccolo è bello, ma il piccolo non ci porterà mai né in Europa né nel mondo. La filiera tedesca nasce anche da una serie di vantaggi competitivi che ha rispetto alle inefficienze del nostro Paese. All’Italia servono aziende strutturate e organizzate lungo tutto la filiera, dalla produzione alla trasformazione fino alla distribuzione, per cercare di aumentare la qualità dei prodotti che vendiamo e creare ulteriore valore aggiunto. Un mio dogma è che quando c’è un sistema competitivo efficiente l’aggregazione avviene molto più facilmente e noi, purtroppo, non riusciamo ancora a essere competitivi. Il Made in Italy va tutelato e va costruito nel lungo periodo. E per costruirlo bisogna dare competitività al sistema Paese, prendersi cura dell’ambiente in cui viviamo, avere regole chiare. Un’Italia in cui si vive bene comunica un’immagine positiva nel lungo termine. Questo è il primo imprinting che dovremmo dare al “made in Italy”.”

Come Ceo della Mutti spa e presidente di Centromarca cosa ci può dire dello stato di salute dell’industria alimentare conserviera e della sua filiera? 

“L’Italia dev’essere un Paese con altissimi standard di legalità e sostenibilità, con imprese omogenee da questo punto di vista. Per competere con elementi non solo “price driven”, ma più di valore. Occorre fare una guerra sana a tutto quello che è Italian sounding, cioè prodotti spacciati per italiani, ma che non lo sono e che ingannano il consumatore. Bisogna agire con costanza e attenzione al territorio”.

La sua azienda come sta fronteggiando il problema di scarsità di manodopera nella raccolta e nella trasformazione?

“La raccolta del pomodoro destinato a Mutti è gestita interamente dagli agricoltori, nostri conferitori. Tuttavia per consegnare il pomodoro a Mutti è necessario che esso venga raccolto meccanicamente, dal 2018 infatti il Gruppo di Parma  ha raggiunto la completa conversione alla raccolta meccanizzata su tutte le tipologie di pomodoro in tutti gli areali di produzione. Questo risultato, oltre a ridurre drasticamente il rischio di sfruttamento della manodopera bracciantile, permette di avere un impiego più orientato alla qualità del lavoro anziché alla quantità. E’ richiesto un impiego di manodopera più contenuto ma più stabile e continuativo, oltre che un’attività meno faticosa. Per queste ragioni i conferenti Mutti non denotano una mancanza di manodopera nella campagna di raccolta. Il personale stagionale ricercato da Mutti per la campagna di trasformazione nel  2021 era di 1100 persone, 800 nei due stabilimenti in provincia di Parma e 300 nello stabilimento di Oliveto Citra e tutte le posizioni sono state ricoperte. Per raggiungere questo risultato l’azienda ha sviluppato un’ampia campagna mediatica sui territori di ricerca che invitava le persone a candidarsi sul sito internet dell’azienda, ricevendo circa 4000 candidature: 3000 per gli stabilimenti del nord Italia e 1000 per lo stabilimento campano. Le figure ricercate sono impiegate a supporto delle attività produttive e amministrative. Il contratto erogato è a tempo determinato stagionale e la durata può essere variabile a seconda delle esigenze produttive. Per candidarsi era necessario aver compiuto 18 anni, essere automuniti ed essere disponibili a lavorare su turni”.

La sua idea di attingere alle persone con reddito di cittadinanza ha incontrato qualche consenso?

“No, non ho avuto riscontri, ma non era quello l’obiettivo: voleva essere più uno stimolo a riflettere su soluzioni non finalizzate al mero assistenzialismo ma più alla creazione di competenze e opportunità che generino valore nel lungo periodo”.

Cosa vi aspettate dal PNRR, anche per via indiretta, in termini di logistica, infrastrutture, digitale?

“Nel settore agricolo e alimentare, l’ammodernamento dei macchinari agricoli, con l’introduzione di macchinari di precisione, e l’utilizzo di tecnologie in agricoltura 4.0 rappresentano obiettivi rilevanti per il PNRR. Sono dei punti su cui in realtà ci concentriamo da sempre: l’innovazione è proprio uno dei pilastri del nostro operato, non solo nei nostri stabilimenti ma lungo l’intera catena del valore. Ma un’accelerazione in questo senso non può che giovarci. Pensiamo anche ai benefici più indiretti, derivanti dall’adozione di pratiche innovative da parte dei nostri conferitori agricoli, su cui non abbiamo un controllo diretto. La fluidità e la sinergia lungo la catena del valore si potenzierebbero in modo significativo. Anche la logistica è un aspetto a cui siamo sempre più attenti, soprattutto alla luce dello straordinario aumento dei volumi di produzione che stiamo sperimentando da vari anni a questa parte. L’intermodalità, tema citato nel PNRR, è qualcosa che già adesso stiamo mettendo in atto laddove possibile, per ridurre le emissioni legate al trasporto dei nostri prodotti finiti, con una progressiva limitazione del trasporto su gomma. La transizione digitale, infine, soggiace tutte le operazioni e non è facile riassumere i benefici diretti e indiretti che ne derivano, perché si riversano su tutte le nostre attività di business, contribuendo a generare dei benefici sulla sfera sociale, ambientale e nei processi interni, sempre più snelli e trasparenti”.

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