Stop. Fine. E chi non se n’è accorto subito ha buttato via un sacco di soldi. Oggi la torta pubblicitaria, che era di 10 miliardi di euro nel 2008, non arriva a 5, anche se in questo computo alcuni grossi player come Google non rientrano. A parità di spazi, gli investitori spendono la metà. Alcuni mezzi sono morti (vedi free press), altri sono agonizzanti (carta, soprattutto i periodici). Il Web tradizionalmente inteso ha raggiunto la carta ma ha smesso di crescere da più di qualche trimestre. E non perché abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come si sente spesso ripetere, nelle redazioni dei giornali di serie A, da speranzosi attori del vecchio sistema dell’informazione che non sta più in piedi. Semplicemente perché non ci sono soldi, perché gli investimenti delle imprese in questo ultimo lustro sono scesi, quindi, colmato il gap, anche il digitale ha smesso di crescere.
Le cause non sono tutte da imputare alla crisi, anche se in buona parte i periodi magri costringono gli investitori a razionalizzare il proprio atteggiamento commerciale. Il colpo importante lo hanno dato gli strumenti sociali abilitati dalla rete, che consentono una discussione pubblica anche sulle imprese e sui relativi prodotti, così da rendere molto più efficace una attività di digital PR rispetto alla tradizionale spesa in pubblicità. Anche perché è cambiato sostanzialmente il paradigma. Le vecchie pratiche di comunicazione seguivano il tradizionale processo a una direzione, con un messaggio, un canale, un codice, un target. Oggi la parte sociale della rete ha rigettato questo presupposto, imponendo di fatto alle organizzazioni di sedere a un tavolo pubblico di conversazione, dove si ritrovano a parlare alla pari degli altri, non potendosi ergere su alcun podio oratorio, ma cercando di essere accettati nella discussione, o semplicemente espulsi da essa. E le imprese conseguentemente hanno provato ad apparecchiare la tavola. Chi più, chi meno.
Quindi tutto a posto? Nemmeno per sogno. Basta fare un giro tra i canali delle principali aziende italiane sui social media, mentre i responsabili, interrogati al riguardo, snocciolano stentorei i milioni di follower e di like, vantando la pubblicazione di un sacco di roba ogni giorno, convinti per questo di fare già una grande attività social. Peccato che un livello di engagement bassissimo non è sinonimo di successo sui social.
Purtroppo per loro, sono ancora molto spesso convinti di essere l’istituzione, che parla e diffonde il verbo, nella fiduciosa convinzione che prima o poi il messaggio arriverà. Ma non è così che funziona, oggi non più.
Se una grande azienda investe molto in sponsorizzazioni TV inseguendo una grande visibilità di marca, ma quando posta su Twitter il relativo appuntamento televisivo non ottiene nemmeno un retweet o un preferito, prima o poi dovrà chiedersi se la sua costosa visibilità televisiva è apprezzata o almeno notata dalla rete.
CEO Scomunicare