COMUNICAZIONE E IMPRESE – Una volta le aziende parlavano all’opinione pubblica attraverso i giornali di carta mentre ora stanno faticosamente imparando ad usare la Rete, ma sui social le opinioni crescono da sole, senza che intervenga il brand, e ancora oggi le imprese dimostrano di aver recepito solo in parte le regole di questa nuova grammatica
Cosa è successo alla comunicazione delle imprese da qualche tempo, da quando anche accorti amministratori delegati hanno cominciato a cimentarsi nei twitter time come Obama, il primo a sperimentare questa tecnica? Che ne è dei comunicatori professionisti e della loro ingombrante presenza spalmata a fianco dei capi come pesci pilota? Se ne vedono meno in giro ai tempi dei social network, come se la rete e i suoi strumenti di comunicazione sociale avessero ribaltato il paradigma e sgonfiato ben bene l’ego ingombrante degli spin doctor.
In effetti il cambiamento operato dalla rete ha costretto le imprese a guardarsi dentro, e rendersi conto (chi più chi meno) che la loro prosopopea pubblicitaria – che le spingeva a dichiararsi “da sempre” vicine alla cultura, mettere “per definizione” le loro persone davanti agli interessi del business, dichiararsi dedite prima di tutto “all’ascolto dei propri clienti”, promettere risparmi e paradisi valoriali un tanto al chilo – non reggeva più. E non perché improvvisamente l’idioletto degli italiani fosse diventato forbitissimo e la loro capacità di lettura dei fenomeni sociali li rendesse tutti più bravi di Bauman. Ma solo perché nel frattempo i social media, dando contestualmente “voce ai cretini” (come ha detto recentemente Umberto Eco, producendo un grande dibattito sul tema) facevano però sì che i ‘cretini’ si scambiassero opinioni sul miglior servizio da comprare, sull’auto che fa schifo, sull’assistenza clienti da incubo, sui prodotti migliori o peggiori della loro vita.
Stop. Fine. E chi non se n’è accorto subito ha buttato via un sacco di soldi. Oggi la torta pubblicitaria, che era di 10 miliardi di euro nel 2008, non arriva a 5, anche se in questo computo alcuni grossi player come Google non rientrano. A parità di spazi, gli investitori spendono la metà. Alcuni mezzi sono morti (vedi free press), altri sono agonizzanti (carta, soprattutto i periodici). Il Web tradizionalmente inteso ha raggiunto la carta ma ha smesso di crescere da più di qualche trimestre. E non perché abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come si sente spesso ripetere, nelle redazioni dei giornali di serie A, da speranzosi attori del vecchio sistema dell’informazione che non sta più in piedi. Semplicemente perché non ci sono soldi, perché gli investimenti delle imprese in questo ultimo lustro sono scesi, quindi, colmato il gap, anche il digitale ha smesso di crescere.
Le cause non sono tutte da imputare alla crisi, anche se in buona parte i periodi magri costringono gli investitori a razionalizzare il proprio atteggiamento commerciale. Il colpo importante lo hanno dato gli strumenti sociali abilitati dalla rete, che consentono una discussione pubblica anche sulle imprese e sui relativi prodotti, così da rendere molto più efficace una attività di digital PR rispetto alla tradizionale spesa in pubblicità. Anche perché è cambiato sostanzialmente il paradigma. Le vecchie pratiche di comunicazione seguivano il tradizionale processo a una direzione, con un messaggio, un canale, un codice, un target. Oggi la parte sociale della rete ha rigettato questo presupposto, imponendo di fatto alle organizzazioni di sedere a un tavolo pubblico di conversazione, dove si ritrovano a parlare alla pari degli altri, non potendosi ergere su alcun podio oratorio, ma cercando di essere accettati nella discussione, o semplicemente espulsi da essa. E le imprese conseguentemente hanno provato ad apparecchiare la tavola. Chi più, chi meno.
Quindi tutto a posto? Nemmeno per sogno. Basta fare un giro tra i canali delle principali aziende italiane sui social media, mentre i responsabili, interrogati al riguardo, snocciolano stentorei i milioni di follower e di like, vantando la pubblicazione di un sacco di roba ogni giorno, convinti per questo di fare già una grande attività social. Peccato che un livello di engagement bassissimo non è sinonimo di successo sui social.
Purtroppo per loro, sono ancora molto spesso convinti di essere l’istituzione, che parla e diffonde il verbo, nella fiduciosa convinzione che prima o poi il messaggio arriverà. Ma non è così che funziona, oggi non più.
Se una grande banca è seguita da 1000 utenti su Twitter ma ne segue solo 9, nessuno dei quali è una persona fisica, che livello di coinvolgimento potranno mai avere i propri tweet? Papa Francesco ne segue 8 (che poi sono sempre i suoi profili nelle altre lingue), ma appena parla ha 3000 retweet, e poi lui è il Papa (e di figure così, diciamo, non è che ve ne siano molte altre in giro…).
Se una grande azienda investe molto in sponsorizzazioni TV inseguendo una grande visibilità di marca, ma quando posta su Twitter il relativo appuntamento televisivo non ottiene nemmeno un retweet o un preferito, prima o poi dovrà chiedersi se la sua costosa visibilità televisiva è apprezzata o almeno notata dalla rete.
Insomma, prima per parlare all’opinione pubblica le aziende usavano i giornali, quelli di carta, con la pubblicità e con un grande lavoro di media relations. Oggi i giornali che sono avanzati li leggono solo gli addetti ai lavori, la politica e la business community, servono per le rassegne stampa. Per parlare con il grande pubblico, le aziende stanno faticosamente imparando a usare la rete. Chi più, chi meno. Ma attenzione: bisognerebbe sbrigarsi a capire questa grammatica, perché nel frattempo le opinioni crescono da sole, anche senza che il brand ci sia o intervenga. La co-generazione della reputazione sta rendendo tutto più celere, ma ancora oggi in Italia le aziende dimostrano di aver recepito solo parzialmente le regole di questa nuova grammatica.
Carlo Fornaro
CEO Scomunicare