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Computer, la top 10 dei più grandi flop della storia

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Fallimenti & Fallimenti 

Nel corso degli anni i computer hanno davvero cambiato il modo in cui viviamo. Per portarci dove siamo oggi, imprenditori e tecnologi visionari hanno spinto furiosamente avanti l’innovazione. Il software si è evoluto fino alle soglie dell’intelligenza artificiale, l’hardware è migliorato a ritmi mai visti nella storia. Questo percorso, come avvenuto in qualsiasi altra rivoluzione industriale, però, non è stato costellato solo di incredibili successi, ma anche di enormi fallimenti. Alcuni di questi, però, sono stati delle esperienze talmente importanti e seminali che definirli fallimenti è qualcosa che non gli rende affatto giustizia. Si potrebbero piuttosto definire fallimenti virtuosi, virtuosi alla luce dell’analisi storica. 

Certo non c’è stato quel successo di pubblico e di mercato che traccia una linea tra un trionfo e un flop. Sono andati bruciati tanti soldi, ma la tecnologia che è stata inventata e sperimentata durante i fallimenti virtuosi ha finito per segnare il futuro dell’intero settore. Alcune di queste esperienze erano troppo avanti per le caratteristiche del mercato del tempo, altre hanno malcalcolato il time to market, altre erano semplicemente il vanity project di un incumbent dell’epoca. Il podio dei più grandi flop è occupato proprio dai fallimenti virtuosi. Ed è proprio da questi che vogliamo partire.

1. XEROX ALTO, XEROX STAR 

A sinistra un particolare dell’esemplare dello XEROX Alto (1973) conservato al Computer History Museum di Mountain View. A destra lo XEROX Star (1981), una versione evoluta e commerciale dell’Alto. 

Sviluppato nel 1972 allo XEROX PARC (Xerox’s Palo Alto Research Center) di Palo Alto, da cui prende il nome, l’Alto è stato il primo computer della storia con una interfaccia grafica utente visuale (GUI) che mimava il piano di una scrivania (desktop) e gli oggetti che vi si trovavano sopra. L’Alto presentava inoltre tutte le caratteristiche tecniche che avrebbero definito il personal computer dei nostri giorni. Aveva un display grafico, un mouse per indirizzare un puntatore con cui selezionare le icone tramite le quali avviare le operazioni, montava l’Ethernet, una tecnologia per le reti locali, un hard disk rimovibile di 2,5 megabyte. La RAM di serie era di 128 KB. Per stampare utilizzava una stampante laser pilotata da un linguaggio, il Postscript, che stampava esattamente quello che si vedeva sullo schermo. 

La faccenda non si limitava solo all’hardware e alla shell di sistema. L’Alto offriva anche una suite di software applicativo che sarebbe diventata, anni dopo, il bundle di ogni personal computer: word processor, foglio di calcolo, programmi per la grafica vettoriale e raster e la posta elettronica. Il linguaggio di programmazione dell’Alto era lo Small Talk, cioè un linguaggio orientato agli oggetti che è il patriarca della moderna architettura dei linguaggi di programmazione. 

Gli scienziati del PARK si erano ispirati, implementandolo a livelli impensabili, al prototipo del l’oN Line System sviluppato dal tecnologo visionario Douglas Engelbart e presentato nel 1969 al MIT. 

La XEROX, a 5mila chilometri di distanza dal PARC e assorbita quasi interamente dalle problematiche del suo core business, non comprese la portata rivoluzionaria del lavoro dei progettisti del PARK e, pur avendone le possibilità, non portò quella tecnologia sul mercato. Alto fu prodotto in circa duemila esemplari in grande parte utilizzati dalla stessa XEROX. Il suo prezzo era proibitivo. Oscillava tra i 12mila e i 40mila dollari dell’epoca. 

Nel 1981, molto prima del Lisa o del Macintosh della Apple, la XEROX immise sul mercato lo Xerox Star, che era l’evoluzione dell’Alto. Ma era un computer lento (impiegava minuti per salvare un file) e anche costoso: aveva un prezzo di 16.595 dollari. Fu un insuccesso: ne furono venduti solo trentamila esemplari. Da un progetto meraviglioso era nato un prodotto mediocre a dimostrazione che l’esecuzione è decisiva nel confezionamento di un successo. 

La stessa XEROX fece un altro errore o, forse, la cosa più importante che poteva fare. Consentì a Steve Jobs di visitare i laboratori del PARK. Il co-fondatore della Apple aveva ceduto alla XEROX un piccolo pacchetto azionario della Mela in cambio dell’impegno della prima a consentire un sopralluogo approfondito dei tecnologi della Apple al PARK. Nel dicembre del 1979 Jobs, Bill Atkinson, Jeff Raskin e John Couch percorsero i 15 chilometri che dividono Cupertino da Palo Alto per essere ricevuti al PARK dove gli fu mostrato l’ambaradan. 

Al termine della visita Jobs, che non conteneva la gioia per quello che aveva visto, disse ai progettisti del PARK: “Siete seduti su una miniera d’oro! Non posso credere che la XEROX non ne stia approfittando!”. Riprova estrema che un incumbent difficilmente possa fare propria un’innovazione radicale e disruptive del business. Infatti accadde che tutto il lavoro del PARC fu preso in carico dalla Apple e, più tardi, dalla Microsoft che si può dire siano state generosamente incubate dalla XEROX. 

Il raid della Apple allo Xerox PARC è stato definito da qualcuno “la più grande rapina della storia dell’industria”. A distanza di tempo, il comportamento della XEROX è stato spiegato così da Jobs: “Con la loro mentalità da fotocopiatori, non avevano idea di che cosa potesse fare un computer. Seppero solo ricavare una sconfitta dalla più grande vittoria conseguita dall’industria informatica. La Xerox avrebbe potuto possedere l’intera industria dei computer”. Ma furono Microsoft ed Apple a possederla.

NeXT computer 

Nel 1986, dopo l’uscita traumatica dalla Apple, Steve Jobs, con un pugno di fuoriusciti, decise di buttarsi in una nuova avventura per fare ciò che non aveva potuto fare alla Apple per via dei “bozo di Cupertino” (così Jobs definiva la dirigenza Apple dell’epoca). In tre anni “selvaggi” fece qualcosa di impensabile, di mitologico. Non a caso, Walter Isaacson, il biografo di Jobs, intitola il capitolo sugli anni di NeXT, “Il Promoteo liberato”. Etichetta quanto mai adatta, perché Jobs e il suo team, in appena due anni, costruirono un sistema che era 15 anni avanti rispetto a quello che allora esisteva e che gli utenti si aspettavano da un computer. 

Il NeXT, che integrava totalmente hardware, software e contenuti, utilizzando lo stato dell’arte della tecnologia, era una sintesi riuscita tra il personal computer e le workstation professionali del tempo che avevano soppiantato i mainframe nei grandi sistemi corporate. Mirava, cioè, a unire l’utenza generalista con quella aziendale. Tutto ciò, purtroppo, non era pensato e progettato per lo stato del mercato agli inizi anni novanta dello scorso secolo, era troppo avanti… era avanti di 15 anni. 

NeXT, in effetti, nel 1988 sembrava una cosa caduto sulla terra da un altro pianeta. Era un sistema totalmente multimediale con un processore di segnale digitale per comporre la musica, aveva la posta elettronica vocale. Il sistema operativo, NeXTSTEP, era basato su un microkernel Unix ottimizzato, aveva un sistema di sviluppo software interamente orientato agli oggetti. Gli sviluppatori disponevano di un tool grafico drag&drop per creare le interfacce utente delle applicazioni coerenti con il sistema. Inoltre utilizzava la grafica vettoriale, il display Postscript, per visualizzare gli oggetti sullo schermo. Aveva Render Man di serie, il linguaggio 3d utilizzato dalla Pixar per creare i film di animazione. 

C’erano contenuti sbalorditivi come le opere complete di Shakespeare in formato ipertestuale, il primo e il migliore ebook della storia. Montava un dizionario in linea (il Merrian-Webster) richiamabile da qualsiasi applicazione. Aveva il dizionario dei sinonimi e dei contrari e quello delle Citazioni della Oxford University Press. Insomma, era la macchina perfetta… troppo perfetta”. Tanto perfetta da essere drammaticamente isolata. 

Nel 1988 Jobs pensava di vendere centinaia di migliaia di NeXT e il mercato ne assorbì appena qualche decina di migliaia. Ne furono prodotti, in una fabbrica totalmente automatizzata, appena 50mila. Nato come un computer per l’università, fu di fatto snobbato nei campus. Si rivolse al mondo delle grandi corporation che alla fine preferirono al NeXT le workstation classiche di Sun, Ibm e Hp. Cercò di indirizzarsi al mondo consumer, ma fu subito sbarrato da Windows che andava appropriandosi della quasi totalità del mercato. 

NeXT costava il doppio di qualsiasi concorrenza (6mila dollari per la versione base) e, soprattutto, non era minimamente interoperabile con l’installato. Bisognava buttare via tutto e ricominciare da capo. Un passo impensabile per le imprese, ma anche per i centri di ricerca e le università. Bill Gates si rifiutò di sviluppare per NeXT. Le case di software più importanti o non investirono o lo fecero più per accontentare Jobs che per convinzione 

In sei anni il progetto NeXT bruciò 250 milioni di dollari dello stesso Jobs, della Canon e del petroliere texano Ross Perot. Alla fine Jobs gettò la spugna, cessando di produrre l’hardware. Ma nel 1995 c’era un’altra società sull’orlo del fallimento. Era la Apple dei “bozo di Cupertino”. I “bozo” fecero l’unica opzione sensata al momento: richiamare Jobs. E Jobs pose la condizione che venisse acquisita non solo tutta la tecnologia del NeXT, ma anche imbarcato tutto il gruppo che aveva sviluppato la “macchina perfetta”. Con queste risorse voleva rifondare la Apple. E, in effetti, lo fece. La tecnologia del NeXT è stato il motore della rinascita della Apple e del suo più importante successo, l’iPhone.

Apple Newton 

Agli inizi degli anni Novanta, senza più Steve Jobs e con Bill Gates che l’aveva messa alle corde, la Apple aveva un bisogno disperato di un “silver bullett”, cioè di un prodotto che ridefinisse il mercato e i rapporti di forza al suo interno. John Sculley e Mike Markkula, che avevamo preso in mano la compagnia di Cupertino, pensarono che questo “silver bullet” potesse essere il Newton, già ambiziosissimo nel nome che gli era stato appiccicato. L’Apple Newton Message Pad, presentato nel 1993, era un palmare dotato di una stilo e di un software di riconoscimento della scrittura manuale e della voce. Sulla carta un dispositivo rivoluzionario. 

Poteva connettersi a Internet, il cui protocollo di comunicazione era stato sviluppato al CERN di Ginevra nel 1991 da Tim Berners-Lee su un NeXT. Il Newton era lo stato dell’arte della tecnologia miniaturizzata di allora. Montava un processore RISC della ARM (la società che fornisce l’80% dei processori degli attuali smartphone), una ROM e una memoria RAM da 8 MB, entrambe. Si avvaleva di uno schermo tattile resistivo da 5″ (480×320 px a 16 bit). Aveva una scheda e una porta audio e una connettività ad infrarossi. Gli sviluppatori della Apple costruirono un sistema operativo ad hoc, denominato Newton OS e un database orientato agli oggetti per immagazzinare e recupeare i dati immessi nel sistema. Un gingillo di tutto rispetto che suscitò un po’ l’invidia di Jobs che considerava la Apple come la “nave dei bozo”. 

L’idea di base del Newton era quella di fornire un assistente digitale personale da portare in tasca e da utilizzare in movimento. Qualcosa di molto di più e di più avanzato di un computer portatile che la stessa Apple aveva lanciato nel 1991. Era la stessa idea che avrebbe guidato i progettisti dell’iPhone che era tutt’altro che un telefono tradizionalmente inteso. L’iPhone era una sorta di figlio del Newton. E l’Iphone fu veramente quello che il Newton non era stato, cioè la “silver bullett” che avrebbe ridefinito i parametri del mercato. 

Paradossalmente l’Apple Newton incappò nelle stesse barriere che avevano impedito al NeXT di attecchire: prezzo troppo alto (tra i 799 e i 999 dollari), carenza di software applicativo, impreparazione dell’utenza di riferimento a ricevere quel tipo di innovazione. Il Newton aveva anche dei problemi di funzionamento che probabilmente, più che alle capacità dei progettisti della Apple, erano legati ai limiti della tecnologia dell’epoca. Nonostante la gran cassa della Apple, il riconoscimento della scrittura era oltremodo difettoso, come è tutt’oggi a 30 anni di distanza, così come lo era quello della voce. Solo oggi si inizia a vedere qualcosa di decente. Nacquero delle barzellette salaci sui difetti di riconoscimento del Newton che minarono la credibilità del prodotto in modo analogo a quanto avviene oggi nelle echo chambers. 

Il Newton era inoltre insopportabilmente lento, come lo era anche il NeXT della versione disco di boot magneto-ottico. Tutti problemi che lo rendevano scarsamente utilizzabile da una fascia di utenza che andasse oltre gli early adopers. Infatti nel 1998, una delle prime decisioni prese da Steve Jobs, tornato al timone della Apple, fu quella di interrompere la produzione e la commercializzazione del Newton. Non fu solo un atto di vendetta verso i “bozo di Cupertino, come quello di Ulisse verso i Proci, fu anche una decisione meditata e consapevole. Era infatti fondata sulla certezza di Jobs che un dispositivo tascabile non poteva fare affidamento su una stilo, dal momento che l’uomo di stilo ne ha cinque, le dita di una mano.

Newton fu, però, un progetto oltremodo seminale non solo per la Apple che vi bruciò in cinque anni 500 milioni di dollari. La Palm, che avrebbe costruito il primo palmare con funzione telefonica, copiò moltissimo dal Newton. Il Palm divenne il progenitore degli smartphone. Poi arrivò l’iPhone e fu tutta un’altra storia.

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