La sigla “Club di Roma”, ai più giovani dice poco o nulla. Ma il sodalizio fondato dal manager torinese Aurelio Peccei è nella storia economica e sociale dell’Italia. Lo ricordiamo qui perché quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della sua nascita. Voluta, appunto, dall’ingegnere piemontese per tratteggiare un futuro del pianeta più armonico, meno devastante, proiettato verso un uso intelligente delle risorse globali. Peccei, morto nel 1984, è stato un dirigente di successo alla Fiat e all’Olivetti. Negli anni ’70 e ‘80 ha esercitato su quanti di noi si occupavano dei temi dell’energia e dell’ambiente, un fascino insolito. Turbati, come eravamo, dalla crisi petrolifera e dalla paura di conflitti locali con implicazioni mondiali. Assistevamo alle guerre nel sud est asiatico, all’affermarsi dei signori del petrolio, a tendenze neoliberiste, alle rivolte dei sobborghi. Con il Club, invece, avanzava un’idea di economia circolare ante litteram, messa a punto da studiosi, intellettuali, uomini d’azienda.
Peccei ne riunì un centinaio, affinché l’Italia facesse sentire la propria voce a livello internazionale su temi che avrebbero impegnato le generazioni future nella lotta, ancora opaca, ai cambiamenti climatici. Aveva la vista lunga immaginando che negli anni a venire ciascuno si impegnasse a svolgere il ruolo sociale nell’interesse della collettività. In piena contestazione giovanile nasceva, un think-tank destinato a lasciare traccia e a trasmettere idee innovative in una certa parte della società. Quattro anni dopo quella prima aggregazione di studiosi, nel 1972, il Club di Roma pubblicava “The Limits to Growth“ , “I limiti dello sviluppo”. Un libro attualissimo, profetico che ha incrociato i destini del mondo. Il primo di una fortunata serie di documenti con al centro i cinque fattori strategici che segnano le sorti del globo: sviluppo demografico, alimentazione, inquinamento ambientale, sfruttamento delle risorse naturali, sviluppo industriale. Su questi temi si sarebbe giocato il destino dei popoli nei prossimi 100 anni. I Paesi industrializzati dovevano rallentare il proprio tasso di sviluppo che avveniva a scapito dei Paesi arretrati. Lo sfruttamento delle risorse naturali, energetiche ed ambientali, andava rimesso in discussione.
Il libro trovava la sua sintesi in uno scenario di una crescita inalterata, senza strappi. Una progressione consapevole di eventi per non aumentare gli squilibri economici, sociali, ambientali. Appariva chiaro – allora come oggi – che chi avesse in mano le leve della crescita, in un mondo diviso in blocchi, dovesse fare i conti anche con una coscienza sociale. Ne scaturì un dibattito appassionante che, però, non incrociò i fermenti del post ’68. In un certo senso si sperò che avvenisse per un maggiore impatto, ma il Club di Roma venne percepito come espressione di quelle elite contestate nelle Università e piazze di mezzo mondo. In sostanza, un’idea di equilibrio globale poco ascrivibile a chi era “altro” nella scala sociale. “La condizione di equilibrio globale - ricorda oggi Gianfranco Bologna, Direttore scientifico di WWF Italia – avrebbe potuto corrispondere alla soddisfazione dei bisogni materiali degli abitanti della terra e all’opportunità per ciascuno di realizzare il proprio potenziale umano.”
Quegli scenari di 50 anni fa non sono stati smentiti. Sono supportati da un’evoluzione culturale che ha posto la tutela del pianeta e la necessità di un uso diverso delle risorse naturali al centro di una global strategy, nonostante le intemperanze della grande potenza Usa. I documenti prodotti dal Club di Roma in questi anni, sono stati più di 40 con attenzione crescente in ogni parte del mondo. Per il cinquantesimo, i due attuali vice presidenti, Ernst von Weizsaecker e Anders Wijkman hanno pubblicato “Come On! Capitalism, Short termism, Population and Destruction of the Nature“, di cui Gianfranco Bologna sta preparando l’edizione italiana. Peccei, per concludere e ricordarlo, lo avrebbe diffuso ovunque.