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Commodities sempre più volatili

Nelle ultime settimane si è scatenato il dibattito sulla possibilità che le attuali quotazioni delle materie prime siano gonfiate da una bolla pronta a scoppiare. Le prove tecniche di esplosione non sono mancate, ma sono state per il momento seguite da recuperi immediati, lasciando quindi i prezzi in balia di una volatilità sempre più ampia e con frenetici cambiamenti di fronte.

L’unico mini-scoppio certo è quello che ha interessato l’argento: dopo aver sfiorato 50 dollari l’oncia sul finire di aprile, stenta oggi a tenere quota 35 dollari. Sono pur sempre almeno 4 dollari più di quelli che servivano per acquistare l’argento a fine 2010. L’oro ha accusato un calo dal record storico di 1575,79 dollari per oncia, toccato il 2 maggio, ma pare solidamente ancorato a quota 1500, un livello mai visto a Londra fino a un mese fa. Le vendite segnalate dal fondo di George Soros e avvenute nei primo trimestre dell’anno non hanno evidentemente creato gli stessi timori che invece ha suscitato il loro annuncio, ben orchestrato dal finanziere la settimana scorsa. Per il metallo, in questi giorni al centro della kermesse di Vicenza Oro, si profila forse una progressiva discesa verso i valori di fine dicembre, quando oscillava poco sopra quota 1400 dollari. Però le difficoltà della Grecia e le sue conseguenze sui mercati valutari invitano alla prudenza. Il rally che ha portato l’oro in alto ha motivazioni che appaiono ancora ben presenti. Le difficoltà dell’economia non suggeriscono certo di abbandonare un bene rifugio (qualcuno preferisce chiamarlo addirittura “la vera valuta mondiale”). Piuttosto è opportuno ricordare che le cifre della domanda cinese per oreficeria sono in crescita continua. I consumatori cinesi e le banche centrali promettono di assorbire agevolmente anche l’oro che si rende disponibile per le vendite di realizzo di cui sono oggetto alcuni Etf auriferi. Certamente però una solida crescita economica mondiale e una maggior stabilità dei mercati valutari daranno il via a un movimento ribassista che potrebbe fare molto male ai fautori a oltranza del metallo giallo.

Il caso del petrolio è più importante per i riflessi politici ed economici e appare più vistoso per il progressivo allargarsi della forbice tra quotazioni e mercato reale. La settimana appena iniziata ha visto un netto calo dei prezzi nelle prime ore di contrattazione, in sintonia con il recupero del dollaro. In meno di un mese le quotazioni hanno ceduto più di 15 dollari, ma sono ancora a livelli che la settimana scorsa l’Agenzia internazionale dell’energia ha considerato allarmanti per la crescita dell’economia mondiale. Il ribasso recente offre ossigeno ai raffinatori, ma non modifica, almeno per ora, un panorama fatto da una modesta domanda di prodotti raffinati. Le analisi di Goldman Sachs continuano a pilotare i futures anche senza agganci con la realtà. Come rilevano alcuni operatori indipendenti, in aprile la maggior offerta saudita (per compensare l’obiettiva carenza di greggio libico e le difficoltà di ottenere petrtolio siriano) non ha trovato una richiesta altrettanto ampia. E le deroghe ai divieti di acquistare greggio iraniano (sono di oggi gli inasprimenti delle misure Ue verso Teheran) hanno accentuato la sensazione di mercato ben rifornito. Le quotazioni del Brent, mantenute sempre molto più alte di quelle del Wti (il riferimento Usa è superato persino dal greggio Dubai) favoriscono l’arrivo, in una Europa che compra poco, di petrolio sudamericano che trova qui prezzi teorici impensabili in America. Dall’Opec, che terrà l’8 giugno a Vienna la sua riunione periodica, ci si aspetta poco: le quote produttive sono ferme da fine 2008, ma sono solo i prezzi, non la domanda, a reclamare un aumento dell’offerta da parte del cartello. A Vienna quindi sarà più interessante verificare la presenza e le dichiarazioni dei delegati iraniani (sarà il presidente Ahmadinejad?) e libici (sarà il ministro Sokri Ghanem, che pare aver abbandonato il fronte filo-Gheddafi?).

Altrove, si colgono accenni di pessimismo riguardo ai prezzi dei metalli non ferrosi, vuoi per l’ampiezza delle scorte di alluminio, vuoi per le ricorrenti voci di rallentamento degli acquisti di rame. Però è un pessimismo cauto, che non parla di una bolla pronta a scoppiare. Tanto che le analisi della Macquarie lasciano intendere che dall’autunno la domanda cinese ricomincerà a irrobustirsi e a dettare legge. Difficile da leggere anche il settore del caffè: a New York la quotazione della varietà arabica ha chiuso la scorsa settimana sotto 260 cents per libbra per la prima volta da quasi otto settimane, ma resta ben superiore ai 240,5 cents di inizio anno. Il mercato è ben rifornito e nemmeno la stagione di bassi raccolti in Brasile (dove la produzione ha un ciclo biennale) è tale da impensierire, anzi, si mostra vicina per quantità ai livelli di un anno di raccolti alti. Ci si può attendere un graduale ribasso nei prossimi mesi, ma non un crollo. Resterà invece alta la volatilità, che però ha motivi estranei ai fondamentali del mercato (cioè a produzione, scorte e consumi). L’attenzione guarda più avanti: in futuro, la graduale crescita della domanda reale imporrà la ricerca di nuove aree da destinare a questa coltivazione. I ripetuti assestamenti dedi prezzi di oro, petrolio, metalli industriali e caffè non cancellano la sensazione che i mercati siano in balia di manovre dettate da fattori esogeni, quali le esternazioni dei guru o le analisi delle grandi banche d’affari. Le quotazioni, pur in ribasso, parlano ancora di livelli inadeguati a favorire la ripresa dell’economia mondiale. La domanda reale, specie quella di petrolio, mostra infatti una vivacità ancora scarsa. Chi si attende lo scoppio di una bolla, però, rischia di essere deluso. E chi ne ha visto le avvisaglie nelle ultime settimane, deve ricordare che globalmente i prezzi sono ancora superiori a quelli di fine 2010.


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