La domanda che rimbalza nei corridoi del Parlamento europeo a Strasburgo non è “se”, ma “come”. Non ci si chiede “se” domani, martedì 15 luglio, Jean-Claude Juncker sarà eletto presidente della nuova Commissione europea che si insedierà a Palazzo Berlaymont a Bruxelles il primo novembre, ma si ragiona sul “come”. Cioé sul numero dei voti che raccoglierà l’ex-primo ministro del Lussemburgo nonché ex-presidente dell’Eurogruppo, ossia dei ministri dell’Economia dei 18 Paesi membri che hanno adottato l’euro.
Per raggiungere la maggioranza qualificata della metà più uno (cioé 376) dei componenti dell’assemblea di Strasburgo, e quindi garantire l’elezione di Juncker, sarebbero ampiamente sufficienti i voti degli iscritti ai tre gruppi parlamentati (popolari, socialisti e democratici, liberaldemocratici) che formano quella sorta di Grosse Koalition che si coagula la maggior parte delle volte che l’Europarlamento approva una legge. Con una disponibilità di oltre 479 voti, qualunque candidato si sentirebbe la nomina già in tasca.
Ma in questo caso non è così semplice. Non tutti i singoli gruppi parlamentari sono compatti al loro interno quando si tratta di scegliere fra una politica di rigore finanziario e una di maggiore flessibilità per ridare fiato a un’economia ancora stagnante o quasi dopo anni di pesante recessione. E inoltre in seno a ciascun gruppo parlamentare convivono posizioni differenti, influenzate chiaramente anche da motivazioni legate allo “stato di salute” dello Stato membro che ogni eurodeputato rappresenta,
Un panorama che Juncker, in virtù del suo curriculum europeo, conosceva da tempo; e di cui ha avuto ulteriore conferma la settimana scorsa in occasione dell’incontro con i capigruppo, che hanno sottoposto alla sua attenzione valutazioni e sollecitazioni che certamente avranno un’influenza sul voto di domani. Il nuovo capogruppo del socialisti & democratici Gianni Pittella, per esempio, ha detto chiaro e tondo che “il patto di stabilità e crescita dovrà essere ammorbidito per combattere la povertà crescente e l’ingiustizia sociale”. Ed ha aggiunto che dovrà essere costruita una nuova politica dell’immigrazione “con condivisione dell’impegno operativo e finanziario da parte di tutti i Paesi membri, non solo di quelli rivieraschi”.
Il capogruppo dei popolari Manfred Weber – l’eurodeputato tedesco che il primo luglio a Strasburgo, in occasione dell’apertura del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Ue, ha polemizzato duramente con Matteo Renzi accusando l’Italia di “non fare i compiti a casa” – è stato meno drastico con Juncker. Il quale per altro da presidente dell’Eurogruppo aveva sostenuto sì il rigore ma con qualche apertura in direzione della flessibilità. Posizione che Angela Merkel, leader tedesco della famiglia politica europea dei cristiano-democratici (alla quale appartiene lo stesso Juncker) non aveva affatto gradito. Al punto che subito dopo le elezioni europee aveva sponsorizzato per la guida dell’Esecutivo di Bruxelles la francese Christine Lagarde, oggi al vertice del Fondo monetario internazionale.
Juncker quindi, da politico navigato qual è, in questi giorni di vigilia del voto di domani a Strasburgo, si è visto obbligato a impegnarsi in qualche spericolato slalom politico. Come quando ha anticipato che il posto di commissario agli Affari economici sarà assegnato a un socialista (il ministro francese dell’Economia Pierre Moscovici, si ipotizza). Ma questa mossa sarà sufficiente a garantirgli il voto di tutti i socialisti & democratici? Pittella, al riguardo è rimasto abbottonato. “Vedremo martedì”, ha risposto a chi gli chiedeva un’anticipazione.
A parte il no urlato ai quattro venti dal premier britannico David Cameron, che è arrivato a minacciare l’uscita del Regno Unito dall’Ue (ma non lo farà) e quello scontato dei partiti antieuropei, Jean-Claude Juncker con ogni probabilità supererà l’esame. Il rischio che possa non raggiungere la maggioranza qualificata di 376 voti viene considerato minimo dai veterani di Strasburgo. Ma per governare l’Europa, a maggior ragione in tempi così calamitosi, è indispensabile poter contare su un forte sostegno parlamentare.
E questo, ancora alla vigilia, non può considerarsi scontato. Anche perché il sostegno previsto da parte dei tre gruppi più numerosi (Ppe, S&D e Alde) potrebbe risultare numericamente più debole in conseguenza di malumori originati in seguito alle molte, e talvolta contraddittorie, aperture di Juncker nei suoi incontri di questi ultimi giorni con gli eurodeputati. Uno dei quali, in privato, sbotta così: “Ha promesso ai rappresentanti di ciascun gruppo esattamente quel che volevano sentirsi promettere…”. Così che, il timore non dichiarato di qualche supporter del candidato è che il numero dei voti possa superare, sì, l’asticella fissata a quota 376, ma non di molto; e che alla fine la presidenza Juncker possa essere meno forte di quanto sarebbe necessario. O addirittura che quel livello possa non essere raggiunto.