Negli ultimi anni stiamo assistendo ad eventi che compromettono l’apertura al commercio internazionale, tra cui spiccano in modo eclatante le politiche protezionistiche dell’attuale amministrazione americana, il voto a favore della Brexit e l’avanzata dei movimenti nazional-populisti nei Paesi dell’Europa continentale. In realtà, se guardiamo alle misure non tariffarie, si è assistito a un costante incremento già in seguito alla Crisi Finanziaria del 2008. E, d’altra parte, non c’è dubbio che le recenti istanze sovraniste vogliano essere una risposta agli effetti prodotti dalla globalizzazione. Come emerge dall’analisi SACE, il fallimento più evidente arriva dalla distribuzione del reddito: la crescente polarizzazione della ricchezza ha prodotto “vincitori” e “perdenti”. Tra i primi, l’attuale classe media dei mercati emergenti e coloro che, in qualsiasi parte del mondo, appartengono alle fasce più abbienti.
Chi invece ha pagato maggiormente i costi della globalizzazione e della progressiva integrazione regionale dei mercati è stata la classe media dei Paesi avanzati. In questo contesto, i fattori da prendere in considerazione sono naturalmente molteplici e in alcuni casi geograficamente specifici, tuttavia sempre riconducibili alla mancanza di meccanismi efficienti (a livello nazionale e/o sovranazionale) di tutela del ceto medio, strategie produttive sbagliate e il rafforzarsi delle rendite di posizione. Gli analisti puntano il dito alla struttura dei mercati del lavoro, con limitati programmi di riqualificazione e sistemi di sicurezza sociale puramente passivi, senza dimenticare lo spreco di risorse destinate a settori improduttivi e imprese fallite, che alimentano soltanto il debito nazionale a scapito di quelle opportunità che potrebbero generare valore aggiunto.
Tuttavia, nonostante a il riemergere di atteggiamenti di chiusura, l’idea che si stia andando verso la fine della globalizzazione a SACE appare piuttosto esagerata. Perché’ invece non vedere i recenti sviluppi come una trasformazione nel capitalismo del XXI secolo? Dopotutto gli analisti ci ricordano quanto i mercati siano in realtà sempre più interconnessi: i flussi di investimenti diretti esteri tra i Paesi del G20 sono raddoppiati rispetto ai livelli del 2005; le catene di approvvigionamento globali rappresentano un posto di lavoro su cinque; gli scambi tra i mercati emergenti sono aumentati rapidamente dal 25% nel 1995 al 40% dello scorso anno.
Allo stesso tempo, l’istituzione dell’African Continental Free Trade Area rappresenta oggi uno dei più grandi blocchi di libero scambio al mondo. Sembra allora verosimile prevedere una nuova forma di globalizzazione, sempre partendo da integrazioni di livello regionale, sulla spinta della crescita delle tecnologie digitali. Ciò sarà particolarmente rilevante per i servizi che, già da tempo, stanno assumendo sempre maggior rilevanza nell’economia mondiale (dal 58,6% del 1991 al 67% del 2015) e negli scambi globali (la quota delle esportazioni di servizi sul totale è passata dal 15,3% del 1980 al 23,1% del 2016).
Come già detto, nell’attuale momento storico sono numerose le barriere commerciali agli scambi e rappresentano un impedimento allo sviluppo dei servizi, il cui peso viene stimato dal 30 al 50%. A livello settoriale, secondo il Services Trade Restrictiveness Index elaborato dall’OCSE, “servizi professionali” e “logistica, i comparti più colpiti sono trasporti e servizi collegati”, mentre quelli più aperti nei settori di “distribuzione” e “assicurazioni”. Ecco allora che di una maggiore apertura degli scambi potrebbero beneficiare sia le economie avanzate, particolarmente competitive in comparti come finanza e consulenza legale, che quelle emergenti, competitive in comunicazioni e servizi alle imprese. Christine Lagarde ha recentemente ricordato come esempio virtuoso in tal senso il Trans-Pacific Partnership (TPP) che, per la prima volta in un accordo commerciale di ampia portata, garantirà il libero flusso di dati attraverso i confini per fornitori di servizi e investitori.
In futuro il settore terziario potrebbe a questo punto diventare il motore principale del commercio internazionale: le misure protezionistiche volte a restringere il commercio non sembrano essere in grado di arrestare gli effetti che tecnologie e innovazioni digitali producono e produrranno, dal momento che gli attuali atteggiamenti di chiusura potranno soltanto temporaneamente e in misura ridotta arginare i flussi di dati e servizi. Per avere un’idea, basti pensare che la larghezza di banda transfrontaliera utilizzata è cresciuta di 90 volte tra il 2005 e il 2016 e si prevede un aumento di 13 volte entro il 2023. E ciò non riguarda soltanto servizi in streaming, chiamate via Skype e post sui social media, ma anche dati che rendono i servizi più negoziabili: dall’ingegneria, alle comunicazioni, ai trasporti.
In questo scenario, l’obiettivo dell’attuale amministrazione americana amministrazione Trump è ben definito: cambiare le regole del gioco degli scambi globali depotenziando la governance multilaterale del commercio e indebolire il ruolo di arbitro internazionale del WTO, in modo tale da far prevalere il peso degli USA nelle contrattazioni bilaterali facendo leva sulla concreta possibilità di imporre, in modo unilaterale, dazi e altre barriere commerciali. Il boicottaggio dell’organismo internazionale è tuttora in atto attraverso il blocco del rinnovo dei giudici dell’Appellate Body, l’organo di appello del meccanismo di risoluzione delle dispute: dei sette giudici previsti, attualmente ne sono in carica quattro e a dicembre 2019 ne rimarrà uno solo, interrompendo ogni attività dell’organo.
Il nodo critico, comunque, è connesso all’emergere della Cina e al tentativo di conquistare la leadership mondiale a scapito degli USA, che lo scorso anno si sono trovati a dover fronteggiare un deficit commerciale nei confronti di Pechino pari a circa 376 miliardi di dollari, oltre il 47% del disavanzo totale. Quando la Cina ha fatto il suo ingresso nel WTO nel 2001 si pensava che nel giro di qualche anno si sarebbe trasformata in un’economia di mercato, ma così non è stato considerato che, ad oggi, nell’economia del dragone l’intervento dello Stato rimane capillare e i sussidi distorcono i prezzi all’export di numerosi prodotti (dumping). Nell’ottica USA, inoltre, le pratiche scorrette sono ben più ampie e riguardano il trattamento della proprietà intellettuale, in particolare nell’high-tech, con vari strumenti, dalle richieste di joint venture alle restrizioni degli IDE, utilizzati allo scopo di trasferire tecnologie USA in mano locale.
Se ad una prima analisi le barriere commerciali USA appaiono quindi come un gioco a somma zero, l’esperienza storica dimostra in realtà come l’effetto negativo ricade sulle attività produttive di chi impone i dazi, attraverso l’aumento dei costi di produzione e dunque dei prezzi: ciò alimenta, a sua volta, l’inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie e rallentando i consumi. Non solo. Tali misure sono capaci di produrre effetti su scala globale, anche nel breve periodo. Infatti, pur se non vi sono evidenti segnali di un rallentamento dell’economia, il contesto di incertezza si sta già riflettendo sulle decisioni di investimento. Questo riguarda in particolare le economie avanzate come USA, Germania e Giappone dove il tasso di crescita degli ordini di beni di investimento è calato, complessivamente, da circa il 10% nella metà del 2017 a circa il 5% nella prima metà di quest’anno. Ma è nel lungo periodo che si manifesteranno gli effetti più profondi, vale a dire un mutamento dell’assetto degli scambi a livello globale. Le barriere tariffarie danneggiano, infatti, anche i partner commerciali: oltre all’effetto immediato determinato da una riduzione dei flussi di esportazione dei fornitori, si creerebbero anche rilevanti effetti indiretti: attraverso le catene globali del valore, un’impresa che vede ridursi le proprie vendite di acciaio o alluminio negli USA taglierebbe anche gli acquisti di beni interni dai propri fornitori.
Un’escalation protezionistica contro la UE andrebbe ovviamente a colpire anche il nostro Paese, la cui crescita dal 2010 in avanti è stata fortemente sostenuta dalla dinamica delle esportazioni. Secondo le stime SACE nel Rapporto Export 2018, sulla scia dei dazi e della diminuzione della domanda globale, i volumi del commercio internazionale rallenterebbero al 4,2% nel 2018 (a dispetto di un +5,2% nello scenario base) e crollerebbero nel 2019 al 2,4% (dal 4,4%), con inevitabili ripercussioni sul Made in Italy. L’export frenerebbe quest’anno di quasi 2 punti percentuali e di oltre 3,5 punti nel 2019. E la minore domanda di prodotti italiani riguarderebbe tutte le geografie più colpite da questa fase di tensioni commerciali, in particolare gli USA e il Messico; a livello settoriale, a risentirne di più sarebbero quei comparti maggiormente coinvolti dalle misure adottate: mezzi di trasporto e prodotti in metallo sono i settori più a rischio. L’effetto negativo per le esportazioni italiane non si esaurirebbe qui, con la riduzione degli investimenti associata alla maggiore incertezza che impatterebbe anche le vendite estere di meccanica strumentale, uno dei principali settore del Made in Italy.
L’introduzione di barriere commerciali, tariffarie e non, è allora un gioco a somma negativa, in cui tutti i partecipanti perdono. Queste perdite, soprattutto, crescono fortemente nel corso del tempo, provocando reazioni uguali e contrarie da parte dei Paesi colpiti. Ma se gli USA possono permettersi un certo protezionismo perché economicamente solidi, e lo stesso può fare la Cina in quanto politicamente forte, a subire le conseguenze maggiori di un’escalation sarebbero proprio i mercati europei, maggiormente dipendenti dall’export. Anche se economicamente robusta, in questo scontro tra titani l’UE rischia allora di trovarsi “tra incudine e martello”, in primis poiché manca di quella coesione politica che le permetterebbe di esprimersi con una sola voce.
E, se anche il sistema multilaterale reggesse, l’UE rischierebbe in ogni caso, dal momento che gli USA sono sempre meno propensi ad assorbire la domanda globale di beni e servizi, con conseguenze negative sull’offerta europea. Ecco allora che, in un contesto storico che, alla Walter Wriston, potremmo definire come “Information Standard”, diventa quanto mai fondamentale procedere con ancora più decisione nel processo di integrazione: rimodellare quindi (con riforme politiche e strutturali a livello sovranazionale se necessario) i programmi di welfare nazionali senza ledere la stabilità finanziaria, per stimolare così quelle imprese e attività produttive che sostengono domanda interna (comunitaria) e investimenti con la creazione di valore aggiunto. Prima che il corso della storia ci trasformi in comparse.