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Commercio, il dopo pandemia pensionerà i decreti Bersani?

FIRSTonline

Molti sono i commentatori che correttamente sostengono che il dopo pandemia non sarà più eguale al passato sia nei rapporti sociali, sia negli assetti economici; che occorre predisporre le più adeguate riforme per potere usufruire dei fondi del Recovery fund; che occorrono progetti idonei a rispettare le condizioni (oggi è di moda il trucco verbale di trasformare le condizioni in condizionalità, frutto di un machiavellismo tanto incolto quanto esilarante).

Ma la voglia dei soldi ha oscurato ogni ipotesi di riforma a costo zero, poco spendibile per i sondaggi del domani. Ad esempio, sindaci e presidenti di regione (autodefinitisi Governatori) continuano a sollecitare a gran voce al governo di non essere esclusi dalla spesa dei fondi europei, ma nessuno di essi indica le riforme e i progetti per le loro città e regioni necessari per poter partecipare all’agognato finanziamento UE.

Ad esempio, ha dichiarato il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, che si tratta di “un’opera gigantesca per la quale possiamo e vogliamo fare la nostra parte”, ma senza nulla aggiungere per la sopravvivenza dei negozi per il commercio al dettaglio e delle loro famiglie urbane esercenti. Così ragionando, ancora non si riflette sulle mutazioni delle città avvenute alla fine degli anni Novanta dell’altro secolo e sul loro permanere nel dopo pandemia.

Correva infatti la fine degli anni Novanta dell’altro secolo e nell’annuario statistico dell’Istat per l’anno 1998 si leggeva che “la rete commerciale italiana al dettaglio è stata interessata negli anni novanta da profonde modifiche al suo interno originate sia da una richiesta di nuovi e diversi servizi distributivi sia da una nuova legislazione su settore meno vincolistica della precedente” (p.405).

Il riferimento alla nuova legislazione riguarda i decreti Bersani che liberalizzarono il commercio al dettaglio privando le amministrazioni comunali di quasi ogni potere per il governo dei loro territori cittadini. Infatti, il cosiddetto decreto Bersani riformò radicalmente il settore del commercio. Fu un passaggio che, in omaggio al mercato, favorì la liberalizzazione del settore. In sostanza sparirono le licenze per gli esercizi fino a 250 mq. di superficie.

Chiunque poté aprire un negozio e vendere ciò che voleva. Sparirono così anche le 14 tabelle merceologiche e restarono solo due settori: alimentare e non alimentare. Oggi, (annuario ISTAT 2017) il settore del commercio interno annovera 1.089.755 imprese, che occupano 3.368.016 addetti. In particolare, il commercio al dettaglio annovera circa 600000 punti vendita. Sono punti vendita che hanno radicalmente mutato strade, portici e piazze cittadine.

Tutto resterà come prima? Anche se, dal canto loro gli esercenti il commercio al dettaglio, che notoriamente operano nel tessuto urbano, sostengono nel loro Osservatorio Confesercenti che a causa della pandemia per ogni apertura di un negozio vi sono tre chiusure e che tra 10 anni l’Italia sarà senza negozi… Da gennaio ad aprile saldo negativo per 13mila unità, continuando così sarà di circa -43mila alla fine dell’anno.

Ne segue la ovvia richiesta che siano i fondi pubblici a garantire che nulla cambi. Può essere invece che molti negozi al dettaglio e i punti di ristorazione non reggano alla crisi economica che si annuncia severa e alle consolidate abitudini dell’acquisto on line, oltre che al rispetto delle norme anti contagio. Se ciò dovesse avvenire che fine faranno gli spazi urbani lasciati liberi dagli abbandoni e destinati all’inevitabile degrado?

Sarà ancora una volta il mercato e riempire i vuoti prospicenti le strade, i portici e le piazze cittadine così come hanno consentito a suo tempo i decreti Bersani? Oppure si dovrà riportare in testa ai sindaci il potere di governare il territorio delle loro città favorendo l’insediamento di altre attività coerenti con il rispetto dell’European Green Deal auspicato dalla UE alle condizioni richieste per ottenere i tanto auspicati fondi?

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