Pubblichiamo di seguito un estratto de “I settant’anni di Mediobanca” di Fulvio Coltorti, intervista di Giorgio Giovannetti apparsa sull’ultimo numero della Nuova Antologia (in allegato).
Professor Coltorti, s’impone un bilancio sull’operato della Mediobanca di Cuccia. Ne hanno scritto in molti: da Colajanni a Giorgio La Malfa. La sua opinione?
È una risposta complessa per tanti motivi. Innanzitutto perché ho lavorato a molte delle iniziative di Cuccia e gli sono stato legato da stima e affetto. Enrico Cuccia mi chiamava spesso per fare il ping-pong (riflessioni e battute faccia a faccia) nel suo ufficio sulle tematiche più bizzarre (dal debito pubblico alle pensioni alla sanità ai teatri…). Colajanni ha dato un giudizio negativo su vari aspetti. Dal lato delle grandi imprese ha sostenuto che Mediobanca non è riuscita a consolidare quel «secondo polo» che doveva essere incentrato sulla Montedison quale alternativa alla FIAT.
Inoltre, a suo dire, Mediobanca «è rimasta estranea alla vera rivoluzione che ha avuto luogo nel capitalismo italiano, che è la piccola e media impresa». Il pensiero sulla Montedison è corretto; non altrettanto, ritengo, quello sulla piccola e media impresa. È dalle stanze dell’Ufficio studi di Mediobanca che è venuta la scoperta del «Quarto capitalismo», un fenomeno che io ho individuato e approfondito pressato dalla curiosità dello stesso Cuccia sul ruolo delle piccole imprese.
Ricordo sempre un passaggio della relazione al bilancio 1978: «Non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l’abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori – privati e pubblici – nell’illusione che non la bontà degli investimenti e l’oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell’iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come e perché, la loro fortuna, c’è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull’autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del Paese».
In questa frase, che nel febbraio 2008 proposi in pubblico nell’originale scritto minutamente a mano da Enrico Cuccia, sta tutto il senso del Quarto capitalismo e del declino delle grandi imprese. Si badi bene ai capitali: non sono affatto mancati. Sono i modi del loro impiego ad aver fallito l’obiettivo del progresso tecnico e sociale. E Cuccia capì presto anche il funzionamento delle medie imprese, forti del loro autofinanziamento. È esattamente quello che troviamo in tutte le nostre ricerche: mezzi propri destinati agli investimenti e debito bancario per la copertura del circolante.
Un capitalismo sano e capace di rischiare.
Niente lobby, finanza «buona» e sostegno alla democrazia. D’altro canto, Mediobanca aveva per mission «istituzionale» quella di seguire e stabilizzare le grandi imprese. Ha ereditato una situazione di debolezza nelle strutture del loro controllo, ha fatto di tutto per rafforzarle, ma i proprietari non erano aquile e non potevano certo essere espropriati. Proprio per impedire la tentazione «industriale», lo statuto di Mediobanca limitava la partecipazione nelle imprese al 15%. In tal modo aveva sempre bisogno di un socio «industriale» da coinvolgere nella gestione corrente. Quindi non era possibile «sostituirsi» agli imprenditori e d’altro canto la competenza di via Filodrammatici era tecnico-finanziaria e non tecnico-industriale.
Allegato in PDF il testo integrale dell’intervista.
Allegati: Nuova Antologia, Coltorti su Mediobanca