CONCLUSIONI: PERCHE’ NON SI CRESCE?
Le considerazioni sviluppate in questo scritto assumono che l‘insoddisfacente sviluppo negli anni dopo il 1999 non costituisce un aspetto specifico dell’economia italiana, ma appare in linea con quanto accaduto agli altri due maggiori paesi dell’unione monetaria. Sulla Germania uno dei piu ascoltati economisti cosi si esprime: “…the country seems to have been abandoned by fortune and now seems to lack the wherewithal to encourage its return. From 1995 to 2005, Europe was the world’s slowest-growing continent, and, next to Italy, Germany was the slowest-growing country in Europe” (Sinn 2007, p. ix).
Per la Francia il Rapport Attali di tre anni fa ha tralasciato la sfortuna, richiamando espressamente il declino: “Le declin relatif a commence. Au total, en 40 ans, la croissance de l’economie francaise est passee de 5% a 1,7% l’an pendant
que la croissance mondiale suivait le chemin inverse […] Notre economie a deux faiblesses majeures unanimement reconnues: une competitivite declinante et l’insuffisance de son reseau de moyennes entreprises” (Commission pour la liberation de la croissance francaise, 2008, pp. 9 e 16).
Il problema della crescita si sposta dunque al livello superiore. Per l’Italia, l’analisi spassionata delle statistiche mette in luce una deformazione delle nostre effettive performance nel contesto di una progressiva trasformazione della struttura che al “declino” delle grandi aziende affianca l’emersione delle imprese del quarto capitalismo. Le vere specifiche difficoltà di crescita risalgono in larga misura alla grande crisi del 2008 e alla più lenta ripresa dei livelli produttivi originari.
Almeno in parte, ciò è riconducibile ai processi di internazionalizzazione. Essi proseguono con delocalizzazioni importanti da parte delle grandi imprese e stanno ora interessando anche le medie, che tendono a soddisfare la domanda dei paesi emergenti attraverso insediamenti esteri. A tutto il giugno scorso i flussi esportativi avevano riguadagnato i livelli pre-crisi, ma occorre considerare l’aumento delle importazioni di beni intermedi e dunque l’effetto del saldo sfavorevole della bilancia commerciale. Esso limita la produzione interna (sostituita da quella offshore) comportando indebitamenti crescenti sui quali gravano oneri finanziari che si traducono in flussi verso l’estero.
Verosimilmente aumenteranno ancora i flussi di materiali intermedi importati (la cui produzione puo essere allocata in aree a costi piu contenuti), mentre rallenteranno le esportazioni a causa delle politiche di protezione doganale adottate dai paesi a maggiore tasso di sviluppo (Sud America e Sud Est asiatico ad esempio). Il procedere della globalizzazione sta imponendo una nuova selezione di mercati e di prodotti; è verosimile che l’industria italiana e i nostri sistemi locali, pur con dinamiche eterogenee, abbiano le capacità per farvi fronte.
I metodi delle rilevazioni statistiche, sempre più complesse man mano che le reti d’impresa si diversificano e si estendono al di fuori dei confini nazionali, aggravano il quadro poiché distorcono le nostre performance relative; non è chiaro in quale misura ciò dipenda dai “nostri” metodi e in quale da quelli degli altri paesi.
La questione è aperta, ma intanto vi è condivisione nel fatto che i valori deflazionati svantaggino le serie italiane (Deutsche Bundesbank 2011, p. 17). Difficile dall’esterno valutare l’entità del fenomeno. Basti dire che, nel caso il valore aggiunto della manifattura italiana venisse deflazionato con gli indici tedeschi, la sua variazione annua tra il 1999 e il 2007 passerebbe dallo 0,7% “ufficiale” al 3,3%; se gli indici fossero quelli francesi, la crescita salirebbe al 4,2%..
Un ruolo importante è anche giocato dall’economia sommersa (che una stima grossolana fissa al 32% del Pil italiano “emerso” che induce a sottovalutare il flusso annuo del reddito. In ogni caso, resta il fatto che le variazioni annuali del prodotto non vengono mai rese coerenti con i livelli e sono questi, in ultima analisi, che determinano la competitività. Un altro esempio di “illusione statistica” è la dinamica regressiva dei margini di profitto della nostra manifattura quando viene calcolata sui valori macro.
Se si considerano invece i dati d’impresa elaborati da Mediobanca (2011), che escludono in quanto inattendibili le piccole aziende, si ha modo di verificare che la quota del margine operativo lordo sul valore aggiunto negli anni dal 1999 al 2007 e rimasta elevata, oscillando tra il 37% e il 42% (valore quest’ultimo relativo al 2007): imprese redditizie mal si combinano con il paventato declino. La sistemazione di queste complesse questioni statistiche, anche con l’adozione di metodi unificati e gestiti a livello comunitario, potrà offrire una base numerica di maggiore qualita per la valutazione della nostra crescita relativa e la messa a punto di politiche più appropriate.
A mio avviso, i dati e gli indicatori qui presentati dimostrano che il problema italiano non è costituito né da una quota insufficiente della componente di servizi nella produzione del Pil (che resta fortemente influenzato dall’industria, circa il 60%), né da un deficit di produttività indotto dalla minor dimensione unitaria delle nostre imprese, né conseguentemente dall’insistere su settori di specializzazione che escludono quelli ad elevata tecnologia. Vi è chi cita, tra le possibili cause della nostra lenta ripresa dopo la grande crisi, la maggiore sovrapposizione delle nostre specializzazioni a quelle cinesi e quindi una maggiore pressione concorrenziale (Deutsche Bundesbank 2011, p. 29); il divario in tale sovrapposizione con Francia e Germania (stimato in tre punti percentuali) non appare tuttavia sufficiente per una risposta definitiva, tenuto anche conto dei diversi percorsi di globalizzazione delle nostre imprese (piu offshoring e meno outsourcing).
In definitiva, la dinamica della produzione industriale italiana è soggetta a due coppie di forze contrarie: il declino delle grandi imprese fa regredire la generazione di ricchezza, mentre l’emergere dei distretti prima e, prevalentemente al loro interno, dei sistemi d’impresa del quarto capitalismo poi, spingono in avanti.
D’altro canto, nell’ultimo decennio il nostro Mezzogiorno non è stato capace di contribuire allo sviluppo nazionale con una spinta proporzionalmente superiore a quella delle aree piu progredite. Quarto capitalismo e Mezzogiorno restano le più forti leve di cui disponiamo per combattere la tendenza recessiva indotta dalla grande crisi.
Per concludere, alcune chiose:
– Circa il “dilemma” grandi imprese vs distretti e quarto capitalismo, è perfettamente inutile chiedersi quale sia la categoria da preferire. Il governatore Donato Menichella sistemò una questione simile esprimendosi in pugliese “Chiste so i sunaturi e cu chiste s’adda suna!” (“questi sono i suonatori e con questi occorre suonare”; Menichella 1986, p. 46). Nell’industria i “sunaturi” sono quelli che abbiamo analizzato e non vi sono motivazioni plausibili per ritenere che possano essere in qualche modo sostituiti nel breve andare. Inutile quindi, oltre che dannoso, tentar di “agevolare” con aiuti ad fabricam la crescita dimensionale. L’assetto dell’impresa e la sua patrimonializzazione sono compiti fondamentali dell’imprenditore e sta a lui decidere per il meglio in base alle sue forze e debolezze. Se l’ampliamento sarà condizione di maggiore efficienza (o magari di sopravvivenza), le stesse imprese lo perseguiranno in autonomia, come puntualmente avvenuto alla fine del secolo scorso con l’emersione dai distretti delle imprese medie e medio-grandi; esse hanno tutte le capacità di giocare a livello internazionale grazie ai progressi dei trasporti e delle comunicazioni, progressi che contrariamente a quanto viene comunemente sostenuto favoriscono le aziende minori agevolando una presenza globale altrimenti riservata alle grandi multinazionali.
– La crisi e il deterioramento della nostra classe dirigente ha fatto si che le capacità imprenditoriali di cui il paese oggi dispone non siano quelle che portano ai grandi progetti, ma piuttosto quelle che Marcello De Cecco un paio di lustri fa (De Cecco 2000), forse con eccessivo pessimismo, ha confinato nell’ “economia di Lucignolo”; ma, nella favola di Pinocchio, Lucignolo è un personaggio negativo perché cerca senza sforzo divertimenti gratuiti che infine lo riducono in asino schiavo di altri. Possiamo dire altrettanto di imprenditori che hanno reagito il più delle volte con sacrifici all’impoverimento delle idee dei grandi, creando imprese che reggono alla competizione delle multinazionali giganti?
– Toccando il tema della politica economica occorre prendere coscienza che lo sviluppo è questione di lungo periodo, mentre scosse e cambiamenti di passo si addicono alle azioni volte a sistemare fenomeni piu contingenti, tra i quali si è ora inserita prepotentemente la crisi dei debiti sovrani; la sua sistemazione avrà effetti al momento poco prevedibili. Sotto il profilo strutturale, che qui interessa, le ricette più efficaci per lo sviluppo appaiono quelle che puntano sul capitale umano e sui servizi delle istituzioni nei territori, ovvero che producono effetti che non rischiano di evaporare negli innumerevoli e complessi percorsi della globalizzazione. Occorre eliminare i “freni”, riconducendo le poche grandi imprese che ci restano verso politiche di impronta nazionale a forte innovazione tecnologica (da misurare sui risultati effettivamente conseguiti e sulle ricadute locali), attivare nel Mezzogiorno meccanismi di crescita autosostenuta (che facciano dimenticare i meri trasferimenti di redditi di cui ha sinora beneficiato), rafforzare nei loro “luoghi” i sistemi d’impresa del quarto capitalismo che oggi appaiono come l’unico e veramente efficace motore di sviluppo; occorre infine riflettere sui servizi della pubblica amministrazione le cui dinamiche abbiamo intravisto foriere di nuovi e importanti freni al progresso sociale.
– Resta difficile pensare che le attività estere dei nostri imprenditori si traducano largamente in flussi che rafforzino il Pil italiano, come accade ad esempio per la Germania. Questo paese fa transitare le produzioni estere per la madre patria con l’obiettivo evidente di massimizzare l’effetto brand estendendolo ad origini meno “nobili”; l’effetto “bazar” di questo offshoring (Sinn 2007, pp. 36 e ss.) si traduce in un margine che negli ultimi anni ha rappresentato di fatto l’intero attivo della bilancia tedesca; ne deriva anche una grande disponibilità finanziaria dal corrispondente (forte) avanzo della bilancia dei pagamenti. Nel caso italiano, l’attivo sull’estero proviene da numerosi operatori che per lo piu gestiscono i flussi internazionali utilizzando holding e sedi estere presso le quali tendono ad accumularsi quote importanti dei margini. Qui torna l’irrisolto problema della governance. Nel 1990 Indro Montanelli scrisse un articolo sottolineando che la “cultura” giapponese (che la nostra maggiore azienda privata si proponeva allora di imitare) aveva bisogno di alcune precondizioni che mancavano in Italia. Secondo il giornalista, ogni giapponese sottoscrive impegni precisi (“cambiali” nel suo lessico) sin dalla nascita verso la Patria, l’Imperatore, la Famiglia, la Scuola, l’Azienda. Sicche “il termine lavoratori include, animata dallo stesso patriottismo e spirito di sacrificio, anche la Nomenclatura dei grandi padroni, dei grandi azionisti, dei grandi manager. Anch’essi, nascendo, sottoscrivono quelle cambiali e passano la vita a pagarle servendo l’azienda come tutti gli altri addetti e senza personale partecipazione agli utili, che vanno interamente all’azienda, entita astratta e suprema su tutto e su tutti”. (Il Giornale, 29 aprile 1990). La degenerazione indotta negli operatori finanziari dall’interpretazione anglosassone del “mercato” introdotto dagli accordi di Maastricht fa temere che quella “cultura” sia di la da venire. Ma dobbiamo sperare che dalle attuali difficoltà nascano nuove forze di progresso che ci restituiscano, con la frase che Vincenzo Cuoco scrisse su un giornale di un paio di secoli fa, “la fiducia di esser buoni ed il desiderio di divenir ottimi”.