Vorrei fare alcune precisazioni circa alcune dichiarazioni rese dall’Ing. De Benedetti ieri in Bocconi, riprese da alcuni giornali tra cui La Stampa di Torino. Ho in mano la seguente versione:
Radiocor, martedì 7 febbraio 2012, 15.40.55 De Benedetti: Cuccia era un autarchico, non ha capito i tempi moderni – “Chi obbligò a vendere la divisione elettronica di Olivetti alla General Electric fu Enrico Cuccia. Cuccia mi diceva “lei è er mejo figo del bigoncio, ma di lei non mi fido”. Mediobanca è certamente una grande scuola di manager, ma Cuccia non ha favorito la nascita del capitalismo. Il detto “le azioni si pesano e non si contano” è la negazione del capitalismo”. Cosi’ Carlo De Benedetti, presidente onorario della Cir e presidente del gruppo editoriale L’ Espresso, in un passaggio della sua vita di imprenditore illustrata agli studenti dell’Università Bocconi di Milano. “Il suo limite – ha aggiunto riferendosi allo storico presidente di Mediobanca – era la sua passione verso Mediobanca. Era un autarchico, un monarchico. Aveva sicuramente grandi meriti ma certamente non ha curato lo sviluppo del Paese, non ha capito l’età moderna. A un certo punto poteva anche ritirarsi”.
Premetto che reputo l’ingegner De Benedetti un imprenditore di grande esperienza e, mentre non mi trovo con il dialetto romano sulla bocca di Enrico Cuccia, posso confermare l’atteggiamento riportato. L’ingegner De Benedetti ebbe la guida dell’Olivetti dal 1978 al 1996 (dopo una breve parentesi in Fiat nel 1977). I fatti olivettiani che cita risalgono alla costituzione del Gruppo d’intervento organizzato da Mediobanca insieme con Imi, Fiat, Pirelli e La Centrale nel 1964.
Quel gruppo d’intervento ebbe origine (come Paolo Bricco ben documenta nel suo libro “Olivetti, prima e dopo Adriano”, ediz. 2005) dalla circostanza che quella storica e gloriosa impresa era in un dissesto tale da paventarne il fallimento. A tale situazione era giunta anche perché aveva acquisito l’americana Underwood (storico fabbricante di macchine per scrivere) ad un prezzo sconsiderato, trovandola per giunta totalmente obsoleta e fonte di grandi perdite. Altro grosso problema, ma finanziario, era la Divisione Elettronica, che fabbricava grandi calcolatori in concorrenza con l’Ibm, che bloccava il mercato affittando le macchine (a quel tempo costosissime) invece di venderle. I modelli Olivetti erano competitivi sino ai primi anni 60, ma privi di una grande scala produttiva e, come detto, la società di Ivrea non aveva mezzi finanziari adeguati, anche perché ancora a controllo familiare. Il problema del Gruppo d’intervento era quello di riscattare da un lato le azioni che assicuravano il controllo (finite in pegno a banche, prevalentemente estere), dall’altro di assicurare all’impresa una liquidità che potesse farla ripartire. Il riscatto-acquisto delle azioni fu realizzato dal Gruppo d’intervento, mentre la liquidità per l’impresa fu ottenuta vendendo alla General Electric la Divisione Elettronica.
Io stesso ho descritto l’operazione nei seguenti termini: “La cessione fu una condizione posta dalla Fiat per partecipare al salvataggio. Tuttavia, ove si fosse insistito in quel settore l’azienda avrebbe certamente incontrato nuove e forti difficoltà poiché l’Ibm – maggior operatore mondiale la cui tecnologia negli anni ’59-’60 era comparabile a quella Olivetti – introdusse nel 1964 la serie 360 guadagnando una supremazia tecnologica che avrebbe reso comunque obsoleti gli Elea della società italiana. Inoltre, il maggiore responsabile della divisione elettronica Mario Tchou era morto in un incidente d’auto nel 1961. L’Olivetti mantenne però le attività nelle piccole macchine dove nel 1965 introdusse la “Programma 101”, anticipatrice del moderno personal computer. Si vedano a tal proposito Amodeo (2009), pp. 20-24 e Bricco (2005), pp. 36 e ss. “ (Libertà e benessere in Italia, a cura di L.Paolazzi, Laterza pag. 150).
Ciascuno è libero di pensare ciò che vuole, ma: i) la cessione non fu una decisione “autonoma” di Mediobanca e senza la Fiat il Gruppo d’intervento non si sarebbe realizzato e la società sarebbe fallita; ii) a seguito dell’azione del Gruppo d’intervento l’Olivetti tornò in bonis, sia pur per breve periodo; iii) la cultura “elettronica” rimase in Olivetti anche perché i piani approvati dal Gruppo d’intervento comportarono specificamente il passaggio dalle produzioni elettro-meccaniche a quelle elettroniche; iv) quella stessa Divisione Elettronica “restò in Italia” proseguendo a produrre nello stabilimento di Caluso elaboratori di media e piccola dimensione sotto il marchio Olivetti General Electric prima e Honeywell Information Systems Italia dal 1970. Quest’ultima tenne anche un Laboratorio di ricerca e progettazione che nel 1973 progettò e sviluppò un elaboratore (Mod. 62) successivamente prodotto a Caluso ed esportato anche negli Stati Uniti.
Nel 1978 la Honeywell italiana occupava 3.800 dipendenti, esportava il 29% della produzione e aveva guadagnato il 31% del mercato italiano degli elaboratori general purpose. L’ingegner De Benedetti assunse la guida dell’Olivetti nel 1978. In quell’anno il Gruppo Olivetti occupava 61.500 dipendenti e chiuse il bilancio pubblico con 2 miliardi di utile (i conti interni, come lo stesso De Benedetti ebbe a rivelare successivamente, erano invece di segno assai diverso). I risultati della gestione dell’ingegnere De Benedetti (inizialmente molto brillanti) qui non interessano.
Egli ha però richiamato il detto “le azioni si pesano e non si contano” (che Cuccia adottò senza tuttavia esserne l’autore). Quel motto deriva dallo stato dell’imprenditoria in un Paese povero di capitali come era l’Italia sino all’immediato ultimo dopoguerra. La disponibilità di imprenditori adatti a concepire e guidare grandi imprese era quasi nulla e, come ebbe a dire Donato Menichella (ex Direttore Generale dell’Iri e poi governatore della Banca d’Italia) al Capitano Kamarck preposto all’Iri dagli Alleati nel 1944, una parte importante dello sviluppo si realizzava “incoraggiando” i “talenti imprenditoriali”, ancorché sprovvisti di capitali. Per inciso, questo problema c’è ancora oggi perché disponiamo di valentissimi imprenditori che però mostrano grandi limiti quando le loro imprese superano determinate soglie dimensionali.
Questo comportamento rappresenta la “negazione del capitalismo”? Tutto sta a definire la parola “capitalismo”. La Cina si sta dando un suo capitalismo che ha caratteri del tutto particolari, come del resto attributi specifici distinguono il capitalismo “renano” da quello anglosassone (i risultati di quest’ultimo li portiamo oggi sulle spalle e li porteremo, temo, a lungo ancora). In che cosa consiste l’incoraggiamento di quelli che si sperano essere “talenti imprenditoriali”? Significa consentire che guidino imprese rilevanti senza costituirne gli investitori prevalenti; ovvero, consentire che esercitino una “leva” sul capitale che hanno a disposizione. Oggi il Gruppo dell’ingegner De Benedetti è quello distinto dalla leva più elevata tra i gruppi italiani più importanti: a fine 2010 la quota conferita alla sua Cofide in patrimonio netto incideva sul capitale complessivamente investito per meno del 7% e cioè la mise del controllante era di 1 euro ogni 13,8 euro conferiti dagli azionisti di minoranza e dai creditori finanziari.
Per Exor siamo a 13,6 euro, per Benetton (prima del buyback annunciato) a 5,3, per Italmobiliare a 7,1, per Fininvest a 1,7. Questo stesso conteggio, riferito al 1991, quando l’ingegner De Benedetti guidava un gruppo assai più rilevante, sempre tramite la Cofide (Cir, Olivetti, Sasib, Sogefi, L’Espresso, Valeo), riportava una leva di 137 su un capitale complessivo di circa 28 mila miliardi di lire. Circa il rapporto via Filodrammatici-Ivrea, tengo a sottolineare che Mediobanca ha sempre sostenuto l’Olivetti a cui tra l’altro ha destinato nel 1946 il primo finanziamento della sua storia. Infine: Cuccia non era monarchico, ma repubblicano, mentre i patti di sindacato gli preesistevano. Come si cura lo sviluppo del Paese? La risposta resta arbitraria.