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Colagreco (Mirazur): “Il mio ristorante non è un museo ma un crocevia”

Benvenuti nella cucina di confine che non conosce confini. Benvenuti al Mirazur di Mauro Colagreco, il ristorante sulla collina di Menton, a 200 metri dalla frontiera italiana, chiuso tra il mare della Costa Azzurra e le vette delle Alpe Marittime che nel 2019 ha centrato i due traguardi più ambiti nel mondo del gusto: a gennaio la terza stella Michelin, seguita pochi mesi fa dal titolo di miglior ristorante del mondo, assegnata dalla The World’s 50 Best Restaurants, la Bibbia del settore. Certo, a favorire questo successo storico ha contribuito l’uscita dalla competizione di Massimo Bottura, lo chef dell’Osteria Francescana di Modena e di Can Roca di Girona, i vincitori delle ultime edizioni promossi d’autorità nella Hall of Fame.

Ma questo nulla toglie alla spettacolare ascesa di Colagreco, argentino di Mar de la Plata, 43 anni compiuti lo scorso 5 ottobre, figlio di immigrati abruzzesi, cresciuto alla scuola dei grandi cuochi di Francia ma che guida uno staff di cinquantina collaboratori di 12 Paesi in cui primeggia la componente italiana. La sua cucina, figlia di uno spettacolare terroir in cui si mescolano macchia mediterranea e sapori di montagna, ha senz’altro il sapore mediterraneo che “nasce dall’incontro di grandi scuole, l’italiana e la francese ma rivisitato – puntualizza – con l’occhio di uno che viene da fuori. Il fatto di non essere né italiano né francese mi ha garantito una certa libertà creativa”.

“E’ una cucina molto vegetale – spiega ancora lo chef argentino – dove sono presenti anche sia il mare che la montagna. Ho cominciato a lavorare con animo del tutto vergine, senza avere alcuna conoscenza dei luoghi, dei prodotti o delle persone del posto, cosa che mi ha permesso di rompere certe tradizioni o luoghi comuni. Per questo è una cucina in costante evoluzione, cosa a cui tengo molto: il mio ristorante non è un museo”.

Altro che museo, semmai un giardino dell’Eden, visto che il ristorante è circondato da orti e giardini che Colagreco (“Per mia sorella sono più bravo come contadino che come cuoco”) cura di persona oltre ad arricchire la dispensa di aromi e vegetali scovati lungo le colline sui due versanti del confine. I suoi piatti, come si conviene d un allievo di Alain Ducasse, indimenticabile chef del Café de Paris di Montecarlo, sono freschi e floreali molto più colorati e mediterranei che classici e francesi. A dettare il menu, senza alcuna eccezione, sono le stagioni declinate in tre varianti: Mer, Jardin e Montagne. 

I piatti? Difficile star dietro a tanta creatività anche perché Colagreco sforna decine di invenzioni ogni anno. Qualche esempio? Barbabietole in crosta di sale del giardino con crema al cavialeUova del pollaio  con anguilla affumicata e noccioleBrioche di patate con uovo fuso e tartufo biancoPiccione domestico, farro e fragoline di bosco. Oppure un piatto di sublime semplicità, come l’insalata di fagiolini croccanti (30 secondi di cottura) insaporita dal profumo di nocciola con sottili scaglie di trombette in un’emulsione di olio di oliva e pistacchi piuttosto che il sapore del limone, l’agrume principe di Menton, che bagna anche il delicato carpaccio di gamberi, un’irresistibile tentazione di far scarpetta nel pane intriso di zenzero servito con una poesia di Pablo Neruda. 

Una vera e e propria lezione di vita più che un pranzo, cui merita dedicare almeno due ore (o anche di più) e subire un giustificato piccolo salasso al portafoglio: il menù degustazione, a fine estate era offerto a 260 euro, ma la spesa media ammontava a 340-350 euro.   

A luglio lo chef ha anche aperto una pizzeria, “La Pecora negra” sulla spiaggia delle Sablettes di Menton. Qui, oltre ad alcuni classici (la Margherita a 12 euro, un’originale Cacio e Pepe a 14 euro), lo chef propone, tra i 20 e i 25 euro, l’idea del  giorno: piovra su un letto di fiori di zucca e mozzarella fior di latte. 

Non è difficile prevedere che i prezzi del Mirazur, vista la fama mondiale dello chef (50 mila iscrizioni di followers in meno di 24 ore dopo nomina a Best Restaurant), siano destinati a salire. Così come la lista di attesa delle prenotazioni per accedere alla sala inondata di giorno dal sole del Mediterraneo, una vista mozzafiato sulla baia che guarda verso Roquebrune. Il sito web del locale annuncia il tutto esaurito del locale fino quasi alla fine del 2020.

“Sono lontani i tempi – ricorda lo chef – i tempi in cui d’inverno abbiamo avuto prenotazioni zero nelle serate invernali. In realtà – precisa – dall’apertura nel 2006 non abbiamo mai perduto davvero denaro”. Merito del proprietario dello stabile, un anziano signore intenerito dall’entusiasmo di quel giovane così entusiasta che riaprì lo stabile chiuso da tempo accontentandosi di una modica pigione, ma ancor di più dei fornitori che hanno accettato di farsi pagare a 4- 5 ma anche a sei mesi. “Gente a cui noi siamo fedeli ancora oggi”, precisa Colagreco nonostante le avances non manchino. “Ma se provassi a montarmi la testa – aggiunge – ci penserebbe Julia a rimettermi in riga”. 

Julia è la moglie, brasiliana, la vera mente del Mirazur, ormai un’impresa che vanta uno staff ben rodato al comando che, per lo più, parla italiano. Figure chiave sono il co-chef Antonio Buono, napoletano (“E’ così bravo – spiega un fornitore – che vale da solo una stella Michelin“), il saucier Davide Garavaglia, milanese, e la romana Roberta Gesualdo, la capo pasticcera.   

E’ questa la famiglia allargata di uno chef che, nei disegni paterni, era destinato, come il genitore, ad una tranquilla carriera da contabile. Ma galeotto fu il richiamo dei fornelli così forte da convincere i genitori e i nonni (tre italiani e una basca) a non ostacolare la vocazione e a consentire l’iscrizione di Mauro al Colegio de gastronomia di Gato Dumas, il Gualtiero Marchesi argentino. Di lì, dopo una gavetta nella capitale argentina, il salto in Europa, alla corte nientemeno che di Bernard Loiseau, il magnetico chef di Chamalières che si suiciderà nel 2003, la tragedia poi descritta dal ”Perfezionista” di Rudolph Chelminsky.

Da qui Colagreco si trasferisce alla prestigiosa corte di Alain Passard all’Arpege: due anni e mezzo che segneranno per sempre il suo percorso: “Da Passard – ricorda – ho imparato a fare un tipo di cucina completamente diverso da quello che avevo sempre fatto. Un approccio ai vegetali mai visto: due volte a settimana, nel mezzo di Parigi, ci arrivavano verdure freschissime dagli orti di proprietà. Era un 3 stelle Michelin dalla fortissima carica umana”. 

A trent’anni, nel 2006, dopo l’ultimo passaggio alla scuola di Ducasse, Colagrecco ritiene che sua suonata l’ora di mettersi in proprio. A convincerlo la scoperta di del luogo ideale, sulle colline di Menton, ridente località che non aveva particolari primati gastronomici, per giunta nascosta dalla fortissima concorrenza di Montecarlo, Nizza e Cannes. “Era un luogo chiuso da 4 anni, una struttura immensa lontana dal centro del paese, in Costa Azzurra dove c’è tanta concorrenza e la gente viene solo nella bella stagione. Eravamo tre in cucina e due in sala. Ma soprattutto – confessa – avevo solo 25mila euro in tasca, senza possibilità di chiedere credito in banca, poiché sono straniero. Pensavo di resistere tre anni e tornare in Argentina”.

Ma il sovranismo, almeno in cucina, non è passato. Sconfitto dal certain régard di un  “meticcio” che sa far giustizia dei luoghi comuni a tavola, travolgendo gli steccati geografici e culturali riconoscendo solo l’autorità del territorio, quel trionfo di colori e sapori, che, su queste colline benedette, rappresenta un vero e proprio inno alle virtù della diversità. Eppure, proprio a pochi chilometri, sulle alture di Menton, si sono consumati e si consumano non pochi drammi dell’immigrazione clandestina.

”Sono ben consapevole – dice  lo chef – della fortuna che ho avuto a nascere un in un contesto privilegiato. Ma sono anche consapevole che se tutto facciamo qualcosa il mondo può cambiare in meglio. Con la cucina, con il lavoro della terra piuttosto che riducendo i consumi di plastica o assumendo gente di tutto il mondo. Senza dimenticare i vignaioli o i contadini che lavorano per me piuttosto che l’ultima famiglia di pescatori di Menton che vive grazie alla garanzia dei nostri acquisti. Questo ristorante è un crocevia, una porta aperta”.    

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