Condividi

Clima, verso la Conferenza di Parigi: nell’Onu c’è accordo su cosa fare, ma non su come

Dal 30 novembre all’11 dicembre si terrà a Parigi la conferenza delle Nazioni Unite per la finalizzazione di un nuovo grande accordo sul clima in sostituzione di quello firmato a Rio de Janeiro nel 1992 – C’è consenso sui fondamentali, ma restano ancora divergenze su un’ampia gamma di modalità nella realizzazione di obbiettivi apparentemente condivisi

Clima, verso la Conferenza di Parigi: nell’Onu c’è accordo su cosa fare, ma non su come

Tutti dicono ormai di volere un successo della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre prossimi per la finalizzazione di un nuovo grande accordo in sostituzione di quello firmato a Rio de Janeiro nel 1992. Se il messaggio sarà chiaro e vincolante, il mondo imprenditoriale e finanziario, e non soltanto i governi, ne trarranno la conferma che sull’economia verde e sulla ricerca ad essa collegata, quali fattori cruciali dello sviluppo nei prossimi decenni, occorrerà investire massicciamente. Ma come sempre il diavolo è nei dettagli che poi in realtà non sono tali.

CONSENSO SUI FONDAMENTALI E SVILUPPO DELL’ECONOMIA VERDE

Dai lavori preparatori emerge che vi è consenso, almeno a parole, sui fondamentali ed in particolare sul riaffermato obiettivo di limitare l’aumento medio della temperatura nell’atmosfera alla fine del secolo ad un massimo di 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali (che crescerebbe altrimenti ai ritmi attuali di inquinamento fino a 4 gradi), riducendo a questo scopo le emissioni di CO2 a ritmi certi e concordati attraverso azioni efficaci in materia di efficienza energetica, sviluppo di energie rinnovabili, protezione ed estensione delle foreste e dei suoli agricoli e costituzione di un fondo che dovrebbe essere di 100 miliardi di dollari a regime a partire dal 2020 al fine di sostenere gli aggiustamenti necessari nei paesi in via di sviluppo e le loro capacità per realizzarli. 

Il tutto in un quadro di coerenza e sinergie con gli impegni assunti alla conferenza delle Nazioni Unite di Addis Abeba nel luglio 2015 sul finanziamento dello sviluppo e nell’Agenda 2030 adottata dai Capi di Stato e di Governo nel settembre scorso in occasione dell’Assemblea generale dell’ONU. E ciò nella consapevolezza che l’aumento delle temperature, incidendo sul degrado degli ecosistemi e sulla biodiversità, pregiudica gli obiettivi di riduzione della povertà e di miglioramento delle condizioni alimentari e di salute delle popolazioni e con essi la sicurezza globale. 

Questa consapevolezza è sensibilmente cresciuta negli ultimi anni a seguito delle inondazioni ed altri eventi estremi in Asia, nelle Americhe e in Europa (e vediamo quanto l’Italia sia vulnerabile a questo riguardo), nonché dell’incremento dei processi di desertificazione soprattutto in Africa e dei conseguenti conflitti e movimenti di popolazioni. Sensibilizzazioni importanti sono venute anche dalle posizioni della Chiesa come espresse nell’enciclica Laudato si di Papa Francesco e dalla proposizione di questi temi nell’ambito di Expo 2015.

SENSIBILITÀ CONVERGENTI MA DIFFERENZIATE DI STATI UNITI, CINA ED UNIONE EUROPEA

Una forte spinta a rendere credibile la prospettiva di una auspicata intesa complessiva è venuta dalle convergenze registrate tra Stati Uniti e Cina, che producono insieme il 45% delle emissioni globali. Obama ha annunciato agli inizi di agosto un programma per la riduzione al 2030 delle emissioni di CO2 del 32% rispetto ai valori del 2005, analoga a quella europea del 40% rispetto ai livelli del 1990, e un aumento della quota delle fonti rinnovabili nel mix energetico al 28%. Contro di lui si sono mosse le lobbies della filiera del carbone e di alcuni settori dell’industria degli idrocarburi. 

In suo favore operano invece le crescenti imprese dell’economia verde e parzialmente, in questa fase, gli operatori nel campo del gas che il piano Obama intende privilegiare, anche sotto la spinta della peraltro controversa “shale revolution”, rispetto al più inquinante carbone con il quale è ancora prodotto il 34% dell’energia elettrica del paese. Si tratta comunque di impegni sui quali gravano le remore del comportamento di un Congresso a maggioranza repubblicana ostile al piano ambientale del Presidente, nonché degli esiti delle prossime elezioni presidenziali. 

Negli incontri tra Obama e Xi Jinping a Pechino nel novembre 2014 e a Washington nel settembre 2015 è stata affermata una comune volontà di ridurre le emissioni. O per lo meno per quanto riguarda la Cina, ancorata al principio delle responsabilità differenziate pur realizzando negli ultimi anni notevoli investimenti nel campo dell’economia verde, di ridurne progressivamente l’aumento fino ad una inversione nel 2030. 

Parallelamente, in occasione del vertice nel giugno 2015 tra Cina e UE (il cui contributo alle emissioni globali è attualmente dell’11%) è stato affermato l’impegno a lavorare insieme per il raggiungimento dell’obbiettivo del limite di aumento sotto 2 gradi centigradi, a dare seguito alle decisioni già adottate dalla comunità internazionale e ad assumerne di nuove aventi un carattere vincolante. Per la Cina si tratterà soprattutto di privilegiare il gas (con peraltro sensibili implicazioni sul piano geopolitico) e le rinnovabili rispetto al carbone che alimenta attualmente oltre il 60% della produzione di energia elettrica cinese. 

DIVERGENZE SULLE MODALITÀ

Restano però notevoli divergenze e riserve mentali, confermate nella riunione preparatoria svoltasi a Bonn a fine ottobre, su un’ampia gamma di modalità nella realizzazione di obbiettivi apparentemente condivisi, che rivelano una volontà da parte dei diversi gruppi di paesi, portatori di interessi diversi, di spostare fino all’ultimo a proprio vantaggi gli equilibri nella ripartizione di oneri e adattamenti. Si tratta tra l’altro di diversità di posizioni sui meccanismi di misurazione, “reporting”, verifica e sanzioni, sul rilievo del principio delle responsabilità comuni ma differenziate nelle emissioni a partire dall’avvio dell’industrializzazione e sulle relative quantificazioni, nonché sui finanziamenti per sostenere le capacità dei PVS. Su questi temi si intrecciano alleanze, distinguo e contrapposizioni spesso strumentali rispetto ad obiettivi specifici.

Gli schieramenti in campo si presentano sempre più articolati nei concreti comportamenti negoziali. I paesi di storica industrializzazione hanno in prima linea l’UE con il suo ruolo di “lead by example”, che da tempo persegue una transizione verso una economia a basso contenuto di carbonio e che più preme per obiettivi ambiziosi e vincolanti. Prevede, entro il 2030, di ridurre le emissioni del 40%, di aumentare al 27% la quota di rinnovabili nella propria produzione di energia e di aumentare in uguale misura l’efficienza energetica. 

Ad essa si sono affiancati, con un approccio propulsivo, gli Stati Uniti e con posizioni analoghe, ma non identiche, altri paesi OCSE. Di fronte a loro vi è il Gruppo dei 77 (il tradizionale raggruppamento dei paesi in via di sviluppo) e la Cina che ne ha costantemente sostenuto le tesi in favore di una differenziazione degli impegni che tenga conto delle responsabilità storiche nell’inquinamento e dell’esigenza dei paesi desiderosi di industrializzarsi di contenere le limitazioni che non aveva conosciuto chi li ha preceduti sulla via dello sviluppo, a meno che non vi siano adeguate compensazioni in termini di finanziamenti, “capacity building” e trasferimenti tecnologici. 

Ma la nuova consapevolezza cinese e gli impegni assunti dalla Cina con USA e UE, frutto dei mutamenti di politica energetica avviati al suo interno, la portano ora ad incidere in modo costruttivo sui comportamenti delle altre economie emergenti. Su di esse e sui paesi ad economia matura premono per decise, tempestive e vincolanti politiche di riduzione delle emissioni i paesi che tra i 77 sono più esposti ai cambiamenti climatici come i piccoli stati isola e i paesi meno avanzati soprattutto dell’Africa ma anche dell’Asia meridionale. 

Il loro peso negoziale è limitato ma trovano sponde nei paesi più avanzati disarticolando cosi il campo dei 77 nel quale comunque essi si identificano nel chiedere una elevazione degli impegni finanziari a carico dei più ricchi. Atteggiamenti dilatori, accentuando quando possibile le divergenze, hanno i paesi più dipendenti dalla produzione e dall’esportazione di idrocarburi e quindi in particolare la Russia e i membri dell’OPEC anche se diversi di questi, soprattutto dell’area del Golfo, hanno avviato importanti programmi di sviluppo delle rinnovabili. 

L’ASPETTO FINANZIARIO

Dalla misura in cui si troverà un equilibrio tra le molteplici e variegate esigenze, tra le quali potranno essere determinanti gli aspetti finanziari, dipenderà il successo della conferenza. Di fronte ai PVS che nel negoziato avanzano richieste spesso strumentali al fine di rendere più stringenti ed ampi gli impegni dei paesi con maggiori capacità contributive, e nell’ambito della prospettiva di un fondo per interventi di 100 miliardi di dollari l’anno a dono e a credito agevolato a partire dal 2020 da raggiungere progressivamente nei prossimi cinque anni, gli Stati Uniti hanno già dichiarato impegni per 3 miliardi di dollari, la Cina per lo stesso ammontare, la Germania per 4 miliardi di euro, la Francia, fortemente impegnata al successo della Conferenza, per 5 miliardi a dono e a credito e il Regno Unito per 5,4 miliardi, mentre l’Italia si è per ora attestata su una somma di 250 milioni di cui dovrà essere previsto un significativo aumento. 

Che l’esito della Conferenza determini un effettivo e sostenibile percorso verso obiettivi ormai in larga parte condivisi è d’altra parte essenziale per il futuro dell’umanità essendo noti tutti gli effetti che i cambiamenti climatici comportano per la sicurezza globale, per le condizioni di vita delle popolazioni e per i fenomeni migratori sui quali essi sono destinati ad avere, in mancanza di appropriati rimedi, una influenza crescente. 

Commenta