Anche Bp, l’ultima delle majors a pubblicare la trimestrale, ha riservato buone notizie agli azionisti. Il gruppo, completato un primo buy back, ha deliberato un nuovo riacquisto di azioni (buy-back) per 1,25 miliardi di dollari più un dividendo di 5,46 centesimi per azione per il terzo trimestre, pagabile nel quarto trimestre, invariato dopo l’aumento del 4% annunciato con i risultati del secondo trimestre.
L’utile è invece cresciuto a 3,32 miliardi, dato sopra le attese degli analisti e superiore ai 2,8 miliardi del secondo trimestre. Il che ha consentito al ceo Bernard Looney di affermare che “al di là dell’aumento del prezzo del petrolio, paga la nostra strategia: rafforzare la struttura finanziaria, dare più utili ai nostri azionisti, investire nella trasformazione del nostro business”. Quasi una Bibbia delle regole per i nuovi petrolieri ai tempi del riscaldamento globale in cui sembra valere un solo comandamento: non estrarre una sola goccia di petrolio in più.
Messa così sembra un paradosso. Ma, come tutti i paradossi, c’è del vero. Nonostante il forte aumento dei prezzi petroliferi (+60% nel 2021), secondo uno studio di Raymond James, 50 tra le più importanti compagnie petrolifere del mondo, hanno alzato solo dell’1% il budget annuale a 275 miliardi di dollari da 271. Sotto la pressione di azionisti activist e l’orientamento “verde” del mercato, le grandi Big Oil stanno riducendo l’attività tipica di ricerca di nuovi giacimenti, obbedendo così all’invito dell’Aie, l’agenzia internazionale dell’energia che già in primavera aveva promosso gli sforzi contro il global warming, per centrare i nuovi obiettivi. In linea di massima gli europei puntano i loro sforzi verso le rinnovabili, gli americani privilegiano la distribuzione dei profitti ai soci.
Il compito di rifornire l’economia dell’energia necessaria (non solo oil, ma anche gas liquido) viene così scaricato sui Paesi dei cartelli Opec, arricchito dalla presenza della Russia. Ma i Paesi produttori, che si incontreranno giovedì per fare il punto sul mercato, sono restii ad obbedire alle richieste americane di aumentare la produzione per scongiurare il rischio che il caro energia faccia esplodere l’inflazione vanificando gli sforzi per la ripresa. Le previsioni lasciano intuire che l’Opec +, incurante della marcia dei prezzi abbondantemente al di sopra degli 80 dollari vada verso la conferma della tabella di marcia concordata a luglio che prevede l’aggiunta di soli 400.000 barili al giorno alla produzione da dicembre nonostante le richieste di aumenti da parte degli Stati Uniti. A giustificare la prudenza, sottolinea Craig Erlan di Oanda, contribuisce l’ipotesi che” il mese prossimo riprenderanno i colloqui sull’accordo nucleare iraniano che potrebbe pesare un po’ sui prezzi, data la prospettiva che una grande quantità di petrolio torni sul mercato, ma un accordo non è vicino, quindi non allevierà le pressioni attuali”.
Ma, al di là della congiuntura geopolitica, la partita dell’energia si rivela sempre più complessa. Da una parte c’è la necessità di combattere l’innalzamento della temperatura, dall’altra, da Est ad Ovest, c’è un mondo affamato di energia che chiede deroghe ancor prima di fissare le regole.
In questa cornice le Big Oil americane, anche sotto la spinta degli azionisti activist, hanno puntato sulla distribuzione dei profitti. Exxon Mobil, dopo aver registrato 6,8 miliardi di dollari di profitti nel terzo trimestre (il migliore dal 2017), ha lanciato un piano di riacquisto di titoli per 10 miliardi di dollari, e l’aumento simbolico del dividendo di un cent, buono per rispettare la tradizione, dato che Exxon aumenta la cedola da 39 anni di fila. Non solo “Il nostro free cash flow – ha detto il ceo Darren Woods – ci consentirà di abbassare i debiti di 4 miliardi”. Stessa politica per Chevron: 6 miliardi di profitti (il miglior risultato dal 2013) e 6,7 miliardi in free cash flow che hanno consentito di pagare dividendi per 2,6 miliardi, tagliare debiti per 5,6 miliardi e ricomprare azioni proprie per 625 milioni di dollari.
La “via europea” si distingue per la volontà di accelerare, grazie alle maggiori risorse, nel business delle rinnovabili. È il caso di TotalEnergies che già dal cambio del nome riflette la volontà di allargare lo spetto delle attività dall’energia fossile a comparti nuovi. È’ soprattutto l’obiettivo di Eni che, dopo l’eccellente trimestrale (+54% a 1,43 miliardi di euro sufficienti a finanziare dividendi e payback) si accinge ad annunciare i nuovi obiettivi di decarbonizzazione con l’aggiornamento del piano industriale a fine novembre. Nel frattempo, corre più velocemente di quanto era stato annunciato la crescita nel settore delle rinnovabili: rispetto a un anno fa a livello globale la capacità installata è ora pari a 834 megawatt (era 307 megawatt), ma soprattutto dovrebbe salire a 2 gigawatt per la fine dell’anno con i progetti in costruzione, tipo l’acquisto annunciato stamane del 20% del progetto di Dogger Bank nel Regno Unito, il più importante parco eolico offshore in costruzione al mondo, con una potenza di 3,6 Gigawatt.
Da seguire anche il caso Shell, la compagnia su cui incombe il diktat della magistratura olandese perché acceleri il suo impegno nelle energie pulite, ma anche la pressione di Daniel Loeb, l’azionista activist di Third Point che chiede lo spezzatino tra attività oil e quelle rinnovabili, da sviluppare con i capitali ricavati dal petrolio. Anche il gruppo della conchiglia, nel frattempo, ha girato ai soci la maggior parte dei soldi incassati con la cessione dei pozzi di shale oil a Conoco Philips, un deal da 9,5 miliardi.