Meno carbone, più alberi. Un freno al metano, più rinnovabili. E una promessa: niente più C02 nell’aria. Quando? Beh, la data è da definire. Forse il 2030, la meta più ardita. O il 2060, suggerito dalla Cina. Magari il 2070, come azzarda l’indiano Modi, consapevole che, come diceva Keynes, nel lungo termine saremo tutti morti. I leader del mondo, dopo la kermesse tra tv, girotondi e selfie con Greta Thunberg, hanno lasciato Glasgow passando la parola ai tecnici, gli sherpa che dovranno tradurre gli accordi di principio e i buoni sentimenti in protocolli più precisi ed impegnativi.
Si svuota il palco, comunque disertato da protagonisti come Xi Jinping e Putin, e, con una punta di cinismo, viene il sospetto di aver vissuto “un’inutile serata”, per dirla con Ornella Vanoni. Ovvero la riedizione dei solenni impegni di Parigi 2015, quando l’allora presidente francese François Hollande parlò di “una rivoluzione per il pianeta” scontrandosi con l’opinione del Nobel Jean Tirole per cui “gli ambiziosi annunci di abbattimento da parte di governi e organizzazioni sovranazionali servono prevalentemente a placare la pubblica opinione ed evitare pressioni internazionali ma ottengono poco in termini di promozione degli obiettivi prestabiliti gli interessi nazionali sono più indicativi delle facili promesse”.
Difficile dar torto all’economista, vista come è andata in questi anni, ricchi solo di impegni disattesi (a partire dai 100 miliardi di dollari promessi ai Paesi poveri). E, soprattutto, di fronte ai dati di oggi: il carbone, l’inquinatore per eccellenza, scavalca il nucleare e si colloca dietro il petrolio tra le fonti di energia più utilizzate; l’impennata del gas naturale, combinata con i guasti di un anno drammatico per il clima (inondazioni in Cina, siccità in California, calamità varie in Europa) hanno fatto rimettere nel cassetto tanti buoni propositi dei governi, a partire dalle tasse per finanziare la transizione verde.
E che dire della buona volontà dei leader? Si deve credere al Joe Biden che pianta gli alberi o a quello che tenta di far pompare agli sceicchi più petrolio per contenere i prezzi della benzina in patria, consapevole che nessun presidente è stato rieletto a fronte di prezzi superiori ai 4 dollari per gallone? Le critiche, insomma, sono fondate. Ma il cinismo rischia di far perdere di vista le novità che, al di là dei risultati che si produrranno a Glasgow, hanno ormai cambiato nel profondo la sensibilità dei mercati.
I buoni propositi, insomma, s’incrociano ormai con i fatti. Ad oggi si contano più di 600 Etf sostenibili a livello globale rispetto ai 30 scarsi di dieci anni fa. Ma il quadro andrà rapidamente aggiornato dopo che Mark Carney, ex governatore della Banca d’Inghilterra, ha annunciato la missione della Gfanz, cioè la Glasgow Financial Alliance for Net Zero, un patto tra i grandi della finanza, banche assicurazioni, fondi di investimento e fondi pensione, private ed altri Big del mercato, con un obiettivo: azzerare il CO2 entro il 2050.
“Stavolta non abbiamo scuse – ha detto Carney – perché i soldi ci sono”. Ovvero 130 mila miliardi di dollari messi sul tavolo da 450 gruppi basati in 45 Paesi disposti a destinare il 40% delle risorse monetarie mondiali alla lotta al riscaldamento per i prossimi tre decenni. E’ come mettere in campo per una generazione l’equivalente di dieci piani Marshall. La chiave di volta della strategia l’ha spiegata lo stesso Carney: “Abbiamo adesso l’attrezzatura necessaria per spostare il cambiamento climatico dai margini all’avanguardia della finanza, così che ogni decisione finanziaria ne dovrà tener conto”.
Insomma, nessuno dei protagonisti del mercato potrà fare a meno di confrontarsi con il business del futuro, pena il rischio di finire out, colpito dall’ostracismo degli investitori grandi e piccoli oltre che dal gotha del mercato perché a fianco di Carney, l’unico in grado di reggere il confronto con il carisma di Mario Draghi, ai vertici del Gfanz figurano tra gli altri Michael Bloomberg e Larry Fink, il numero uno di Black Rock. Funzionerà la formula? Sarà il propulsore giusto per spingere in governi sulla strada della sostenibilità? Gli scettici non mancano, anche perché l’impresa è titanica. Ma qualche passo, tipo la formazione dell l’International Sustainability Standards Board (o ISSB), che avrà il compito di sviluppare principi comuni di sostenibilità rivolti ai mercati finanziari, sono già stati avviati.
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Insomma, il sentiero è stretto ed impervio. Lo stesso Lawrence Fink ha ieri messo in guardia contro processi troppo rapidi, magari all’insegna della moda: azzerare la ricerca di nuovi giacimenti di petrolio, come chiede l’Agenzia Internazionale per l’Energia, rischia non solo di consegnare il monopolio ad Arabia Saudita e Russia ma anche di favorire operazioni di Opa, tinte di finto verde. Ma, vista la posta in gioco, val la pena di provarci.
Ci sono, come ha notato l’ex ministro del Tesoro Domenico Siniscalco, almeno tre nuovi elementi emersi nel settore privato che gettano una luce positiva sulle prospettive della crisi climatica. Il primo è il mutamento delle preferenze dei cittadini, particolarmente delle giovani generazioni. Il secondo elemento è la disponibilità di tecnologie che utilizzano meno energia e meno risorse naturali. Il terzo è proprio la crescita della finanza sostenibile (o Esg): oggi in Europa e negli Stati Uniti i bond che finanziano esclusivamente progetti ambientali, sociali o di governance sono cresciuti oltre il 25% e hanno raggiunto i 500 miliardi di dollari, mentre simmetricamente i capitali affluiscono con crescenti difficoltà ai progetti energivori che nessun investitore istituzionale sembra volere più finanziare.