Con la decisione del Consiglio europeo di fine giugno 2012 – che avvia l’Unione bancaria e il Fondo salva Stati – lo spread non è più il termometro della permanenza di un Paese nell’Euro, ma della sopravvivenza della BCE. E’ il futuro dell’Euro – e quindi anzitutto i suoi benefici – che bisogna valutare. E’ bene tornare a considerare i fondamentali, anche perché la ripresa economica dell’Eurozona rende obsoleto il dibattito accademico degli ultimi tre anni sull’austerità–che–fa–male).
Per ragionare sui benefici netti dell’Euro in modo corretto dobbiamo ricordare alcuni fondamentali (che a volte si dimenticano, anche se sono da molti anni ben spiegati nei principali libri di testo universitari, come il De Grauwe e il Baldwin – Wyplosz).
I fondamentali dell’Euro
1. L’Euro nasce – e per ora resta – una “unione monetaria incompleta”: i Paesi-membri sono accomunati solo dalla moneta, senza altre politiche (in particolare quella di bilancio) comuni.
La storia ci ricorda che tutte le unioni monetarie “incomplete” sono prima o poi scomparse. In altre parole, o procede con successive integrazioni, anche politiche, o fallisce.
2. Non solo la storia, ma anche la scienza economica insegna che una unione monetaria “incompleta” è una costruzione particolarmente fragile, in presenza di “ shocks asimmetrici” (che hanno effetti divaricanti sui Paesi-membri). L’unica politica a disposizione – quella monetaria, della BCE – non è adatta, proprio perché “buona in media”, a risolvere problemi dovuti all’aumentata varianza tra i Paesi-membri.
3. I benefici netti (cioè benefici superiori ai costi) dell’essere parte di una Unione monetaria dipendono da una serie di condizioni (che nella letteratura scientifica corrispondono alle diverse analisi di: Mundell, McKinnon, e Kenen), che dovrebbero essere soddisfatte prima di entrare a far parte di una Unione, o che potrebbero anche essere conseguite in seguito, con le opportune riforme.
4. I benefici sono essenzialmente riconducibili alla maggior crescita che deriva dall’integrazione con altre economie (integrazione che genera specializzazione nelle proprie virtù relative; economie di scala e di scopo; e così via), mentre i costi derivano dalla rinuncia a passate produzioni e conseguenti difficoltà economiche e sociali di adattamento. E’ quindi chiaro che i benefici netti sono tanto più probabili (e grandi) quanto più buoni sono sia il mercato (la competizione) che stimola e seleziona; sia il welfare (la solidarietà); sia la cooperazione (il coordinamento) delle altre politiche di Governi nazionali.
5. Poiché i benefici si cumulano nel tempo mentre i costi maggiori si hanno soprattutto all’inizio, il profilo dei benefici netti è crescente nel tempo. Anche per questo, l’Unione è da intendere come “indissolubile”: non dà alcun beneficio un’unione temporanea o da cui si possa uscire e rientrare.
I primi 15 anni
L’Unione iniziata il 1° gennaio 1999 non sempre ha tenuto conto di quei cinque principi fondamentali. Per una serie di motivi: ciascun Paese non ha verificato con cura le sue condizioni di successo; non sono state fatte le riforme e le politiche necessarie; e neppure in condizioni di crisi grave (dopo il 2009) si sono visti gli indispensabili “giochi cooperativi” dei Governi. Ma due aspetti strutturali – emersi con chiarezza solo con la crisi degli ultimi tre anni – erano stati sottovalutati fin dall’inizio.
1) Anzitutto, la teoria delle ”unioni monetarie ottimali” si basa sulla capacità della competizione – cioè della selezione operata da un buon mercato – di produrre i suoi benefici. Non a caso, è una teoria tutta sviluppata da economisti americani, cioè di cultura opposta a quella europea quanto a fiducia nelle capacità benefiche del mercato e della competizione. E ciò che vale per l’economia vale a maggior ragione per la società. Non a caso, noi europei parliamo di “economia sociale di mercato”, che ha più senso in tedesco che in inglese!
Il settore dove la concorrenza è più libera di agire è quello dell’industria. Infatti, è in questo settore che oggi vediamo nell’Eurozona i risultati della selezione operata anche grazie alla moneta comune. E i benefici vanno direttamente alle imprese che hanno saputo (o potuto) adeguarsi a quanto richiesto da questo processo di integrazione cum selezione. Il “mercato interno” europeo, la cui qualità sarebbe stata migliorata dalla moneta comune, … ancora non c’è!
2) Ma anche l’Unione monetaria, ancorché incompleta, … ancora non c’è! Con la crisi abbiamo infatti scoperto (ma avremmo dovuto saperlo, vedi Terzi-Vaciago “Euro, banche e struttura finanziaria”, Società Italiana degli Economisti, 1999) che l’unica moneta davvero comune era solo il circolante (banconote e monete), cioè la moneta della Banca centrale, e non anche quella delle banche. La “rinazionalizzazione del sistema bancario” di questi anni ha rischiato di essere l’inizio della fine. Di qui la priorità – condivisa da tutti i Governi – di realizzare, a partire da quest’anno, l’unione bancaria.
Meglio tardi che mai!
Conclusioni: Euro tedesco?
In questi anni, ci siamo tutti divertiti a dire la nostra sulla Germania. Il lunedì ne abbiamo paura; il martedì le attribuiamo le colpe dei nostri errori; il mercoledì le facciamo sapere in cosa noi siamo migliori; il giovedì le chiediamo di fare di più; il venerdì le rinfacciamo Auschwitz; nel week-end ci riposiamo, … e poi si ricomincia.
Sarebbe più serio, e politicamente utile, se nei prossimi anni riuscissimo, tutti noi, a decidere cosa intendiamo fare assieme alla Germania: ne condividiamo già la stessa moneta; riusciamo ad averne anche gli evidenti benefici in termini di crescita dell’occupazione e del reddito?
Dal sito di Circolo Ref Ricerche