In Italia non c’è il Partito Repubblicano né i Tea Party che negli Usa stanno tenendo in scacco Obama per costringerlo a ridurre la spesa senza toccare le tasse, con il rischio di far fallire il paese. Ma il comportamento del nostro governo non è da meno. Per non dire che verranno aumentate le tasse e, anzi, in previsione di una loro (impossibile) riduzione, il ministro dell’Economia ha varato una manovra finanziaria piena di interventi frammentati a tutto campo. Così è ben difficile capire i riflessi di questa manovra sull’economia e la sua reale capacità di ridurre il disavanzo in maniera permanente. So di dire qualcosa di molto impopolare in Italia in questo momento, ma credo che, in queste condizioni, sarebbe stato più giusto e più trasparente aumentare le tasse. L’imposizione fiscale, per la sua natura, ha carattere progressivo, mentre il rischio dei mille interventi sulla spesa è senza dubbio regressivo, come viene messo in evidenza da molti. E così saranno i più deboli che finiranno per pagare di più. Ciò che alla fine produrrà un rigetto di queste misure con il rischio di vanificare l’obiettivo di riduzione permanente del disavanzo pubblico.
Facciamo solo qualche esempio. Si aumenteranno i ticket sulla sanità, cosa che farà aumentare il carico contributivo sui malati. Si chiederà un contributo di solidarietà alle pensioni superiori a 90.000 euro l’anno e si bloccherà l’indicizzazione per quelle superiori a 2.380 euro al mese. Contabilmente queste misure vengono segnate come una riduzione della spesa pubblica, ma in realtà per la gente sono un aumento del prelievo fiscale o contributivo. Non sarebbe stato più logico dire, ad esempio, che le tasse vanno aumentate sopra i 90.000 euro l’anno? Se quella cifra è considerata elevata per un pensionato, altrettanto lo deve essere per un percettore di reddito da lavoro o da rendita, che ha anche le sue brave detrazioni. Se si fosse scelto di aumentare l’imposta diretta per tutti i redditi sopra quella cifra (comprese le pensioni), sarebbe stato più equo e più efficiente dal punto di vista di contenimento del disavanzo pubblico.
Ma, si dice, un aumento della pressione fiscale ha effetti depressivi sull’economia. In realtà è vero l’inverso, almeno nell’immediato. È la riduzione della spesa pubblica che frena la domanda interna, più che l’aumento delle tasse. Se le tasse sono aumentate a chi ha redditi maggiori, esse finiscono per essere pagate, almeno in parte, con un prelievo sul risparmio, mentre la domanda di consumo rimane inalterata.
Però, si argomenta che una vera riduzione del disavanzo pubblico è stata fatta solo dai paesi che hanno abbassato la spesa pubblica, mentre quelli che hanno aumentato le tasse hanno finito poi per far crescere anche la spesa. Verissimo. Ma i paesi che hanno ridotto la spesa pubblica lo hanno fatto attraverso modifiche strutturali dei meccanismi di spesa che hanno messo del tempo per tradursi in riduzioni del disavanzo. Nel breve tutti hanno fatto ricorso a un aumento delle entrate. L’Italia, che vorrebbe ridurre il disavanzo nel corso dei prossimi 3 o 4 anni, avrebbe dovuto intervenire nell’immediato con un aumento delle tasse e poi con una modifica dei meccanismi di spesa, varata oggi ma che avrebbe dato risultati domani.
Di positivo c’è comunque la rapidità con cui questa manovra è stata varata e su questo occorre investire per il futuro. Siamo ancora a tempo per varare vere riduzioni di spesa pubblica attraverso modifiche strutturali, come l’accorpamento degli 8.000 comuni e la diffusione di sistemi informatici nella Pubblica Amministrazione, che altrove sono riusciti a ridurre il fabbisogno di lavoro e a migliorare la qualità dei servizi ai cittadini.