Meno immobile di quanto sembri: è il ritratto del tessuto produttivo italiano che l’economista Innocenzo Cipolletta pubblica nel suo ultimo lavoro, un saggio breve dal titolo “L’Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione”.
Il testo, alla cui realizzazione ha partecipato anche Sergio De Nardis, ripercorre in modo veloce ma efficace le tappe dello sviluppo italiano nei primi dieci anni del nuovo millennio, analizzando da una prospettiva globale le tendenze economiche del Belpaese. Non senza qualche gradita novità.
Innanzitutto, un dato di fatto incontestabile: da molti anni l’economia italiana non cresce. Soprattutto se comparato ai paesi europei più dinamici, il Pil dello stivale è da anni in fondo alle classifiche. Ma l’analisi macroeconomica rischia, a volte, di lasciare in secondo piano ciò che i grandi numeri celano.
E qui viene a galla un quadro tutt’altro che negativo riguardo la struttura industriale e manifatturiera del Paese: in un contesto di stagnazione economica e di crescente globalizzazione dei mercati, l’economia tricolore ha subìto un “rimescolamento” interno del tessuto produttivo che, a livello microeconomico, ha saputo adeguarsi e specializzarsi, raccogliendo la sfida della competizione orientale.
Nel quinquennio 2000-2005, ad esempio, l’ingresso di nuovi produttori “ha contribuito ad aumentare la produzione manifatturiera di 25 punti percentuali, ma la caduta di imprese ha indotto una caduta di entità simile. Il cambiamento è stato altrettanto marcato dentro le aziende…l’aggiunta di nuovi prodotti ha accresciuto l’output complessivo di 24 punti percentuali; la simultanea eliminazione di produzioni ne ha provocato un calo per 23 punti”.
In sostanza, secondo Cipolletta l’economia italiana ha semplicemente dato avvio a un profondo processo di “specializzazione produttiva” di stampo ricardiano.
La direzione della specializzazione – inequivocabilmente – indica che il Paese ha scelto di concentrarsi nei beni di alta qualità, lasciando la produzione delle merci a basso valore aggiunto e ad alta intensità di manodopera non qualificata alle nazioni emergenti, dove la competitività salariale e la svalutazione monetaria rendono la produzione ipercompetitiva.
Nell’impossibiltà di adattarsi alle dinamiche macroeconomiche del continente asiatico, i produttori italiani si sono coordinati verso la produzione di manufatti e prodotti di alta qualità, generi nei quali i giganti asiatici non sono ancora competitivi.
La “selezione naturale” all’interno del tessuto produttivo ha giocato un ruolo primario: molte aziende inefficienti sono uscite dal mercato, sostituite da nuclei produttivi più competitivi e orientati all’export. Anche i numeri sulla produttività non sono del tutto negativi: anzi, la produttività totale dei fattori, nel settore industriale, è tornata su terreni positivi fin dal 2003 e, pur non riuscendo ad eguagliare la performance tedesca, ha comunque guadagnato terreno nei confronti delle altre industrie europee.
Tale miglioramento, però, ha “avuto limitati riflessi sull’intera economia e – continua Cipolletta – l’impatto per l’Italia sarebbe apprezzabile solo se l’assunzione dei ritmi del prodotto per occupato tedeschi si estendesse al resto dell’economia, vale a dire a quell’80% di attività produttive che non coinvolgono trasformazioni industriali: un motore ben più grosso di quello manifatturiero si deve attivare per tornare ad avere maggiore crescita economica“.
Servizi e pubblica amministrazione, dunque, sono i due principali fardelli che pesano sulla performance tricolore.
In tale contesto l’eccellenza dell’industria italiana non riesce a trainare l’intera economia, pur risaltando nel contesto internazionale in settori merceologici specifici e ad altissimo grado di “customizzazione” del prodotto: è l’eredità della tradizionale sapienza dei produttori locali, particolarmente abili nel cogliere le necessità del singolo cliente ed in grado di adattare ad esse la produzione.
Un processo di trasformazione dei fattori totalmente opposto alla serializzazione su cui si basano i vantaggi competitivi delle catene asiatiche a basso valore aggiunto.
Risulta ancora più sorprendente che l’industria italiana abbia con successo raccolto la sfida imposta dalla globalizzazione, se si considera che tutto ciò è avvenuto senza alcuna impostazione di politica industriale da parte dello Stato, altresì impegnato – a partire dalla fine degli anni ’90 – nel risanamento finanziario, prerogativa all’ingresso nell’unione monetaria.
In tale contesto, anzi, le privatizzazioni non sono state accompagnate da un parallelo processo di apertura dei mercati, tanto che ingenti capitali (si pensi al caso Telecom) sono accorsi in settori protetti, garanti di redditi da monopolio.
Qualche passo avanti, invece, si è fatto con le riforme del lavoro che hanno aumentato il tasso di occupazione, eliminando le rigidità del mercato. Da notare la posizione di Cipolletta sul dilemma della “minore crescita della produttività, che tanto ha preoccupato e preoccupa molti economisti italiani”: proprio la rigidità del mercato del lavoro prima della legge Treu (1997) avrebbe ridotto il contenuto unitario di lavoro, privilegiando l’uso intensivo del capitale. Il vero cruccio delle attuali norme in materia rimane, in ogni caso, il dualismo del mercato.
Le misure in campo giuslavoristico intercorse tra il 1997 e il 2003, invece, hanno aumentato la quota di lavoro per unità, riducendo quindi la produttività totale dei fattori. Cipolletta considera il dato “un successo, più che un problema“, in quanto la ridotta produzione per addetto costituisce un indice di maggior tasso di occupazione.
In un contesto di rapidi e profondi cambiamenti, conclude l’economista, “il fatto positivo è proprio la capacità di reazione delle imprese. Il fatto negativo che emerge è che questa reazione non ha avuto un indirizzo di politica industriale e quindi si è realizzata essenziamlmente sulla base di convenienze microeconomiche da parte delle imprese“.
In presenza di politiche industriali volte a “fare sistema” e coordinare dall’alto le tendenze e le sfide raccolte dal mondo produttivo italiano, il risultato, da un punto di vista macroeconomico, sarebbe stato probabilmente migliore.