Roma prima, durante e dopo la siccità, la pandemia, le blatte, la crisi sociale. Roma distopica che non è più bella ma carica di confusione, odi e rancori sociali e culturali forse mai sopiti. Questa appare la trama di Siccità, l’ultimo lavoro di Paolo Virzì presentato allo scorso Festival di Venezia fuori concorso.
Il regista ci aveva abituato bene: difficile dimenticare quel piccolo capolavoro della commedia italiana come Ferie d’agosto del 1996, come pure Ovosodo dell’anno successivo, per arrivare poi al Capitale umano del 2014. Virzì è stato certamente un grande protagonista di un cinema italiano che ora stenta a riprendere una sua identità e originalità in grado di attrarre e far tornare il pubblico nelle sale.
Siccità, ultimo film di Paolo Virzì: la trama
Il film si svolge in una città in preda ad una crisi idrica che la avvolge e la disidrata non solo nella mancanza di acqua ma anche nei sentimenti e nelle relazioni tra gli individui. Roma appare monocolore dove tutto e tutti si mostrano inariditi, asciutti come lo stesso Tevere che dal suo alveo fa emergere reperti dell’antichità. Forse si tratta delle sole immagini suggestive e oniriche: se questa voleva essere una possibile rappresentazione metaforica del momento che stiamo attraversando forse Virzì c’è riuscito. Il regista propone un mosaico di umanità disordinato e confuso, disperato e rassegnato, pazientemente ordinato in fila per l’attesa dell’autobotte che distribuisce il prezioso e insostituibile liquido vitale. Lo sfondo, la scenografia metropolitana, le immagini della città non riescono a restituire o a confermare la sua bellezza propria, come se la distopia degli avvenimenti che la descrive la debba condannare pure al suo declino estetico.
Siccità: un grande cast ma poca passione. Il film non convince
Il cast è ricco e rappresenta una parte del meglio della compagnia di giro che offre il mercato: Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi e Monica Bellucci per citare solo i più noti insieme ad altri comprimari di buona qualità. Tutti però ai minimi termini, al sufficiente sindacale, senza anima e senza ardimento, appunto, aridi come il resto della città. Nessuno tra loro riesce a dare corpo e spessore ad un personaggio in grado di rappresentare quel suo spezzone di vita, di ruolo reale o fittizio, sufficiente a farcelo intravvedere come possibile e plausibile.
Il film non convince: troppo semplice, sommario e troppo “gia visto” con tante citazioni e suggestioni di luoghi e personaggi già presenti in tanto altro cinema nazionale. Siccità sembra essere speculare alla Grande Bellezza di Sorrentino. Gli scarafaggi onnipresenti e la pioggia salvifica e ristoratrice vorrebbero essere la chiave di volta finale di una sceneggiatura che fatica a reggere un racconto cinematografico adeguato a suscitare quel consenso nelle sale che sembra ormai disperatamente disperso.
Gli italiani e il cinema: film italiani distanti dagli interessi del pubblico
Proprio mentre Virzì presentava il suo film a Venezia, veniva presentato la ricerca su “Gli Italiani e il Cinema – La fruizione di film dentro e fuori le sale italiane” realizzato dalla SWG S.p.A. per conto della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del MiC. Si leggono numeri impietosi sulla crisi del cinema italiano e delle sale. I motivi sono molteplici e di varia natura ma, tra questi, è lecito supporre che ci sia pure un progressivo inaridimento di idee e proposte narrative, proprio come il Tevere asciugato rappresentato da Virzì dove il meglio si trova nel passato e solitamente sommerso dall’acqua che vi scorre nelle sue “normali condizioni”. Abbiamo citato in un precedente articolo il caso di quando, lo scorso anno, vennero presentati quasi contemporaneamente ben tre film di noti registi (Verdone, Sorrentino e Moretti) tutti incentrati su racconti autobiografici. Troppo poco e forse troppo distanti dagli interessi del pubblico.