Giudizio dell’autore:
Le immagini di un quartiere semiperiferico di Napoli attraverso gli occhi (e il cellulare) di Agostino e Pietro, due adolescenti “normali”. Questo il tema di Selfie, con la regia di Agostino Ferrente, già noto per il documentario sull’Orchestra di Piazza Vittorio del 2006, un piccolo film di tutto rispetto. Quella invece uscita nelle sale da pochi giorni è stata definita come una delle pellicole più interessanti del cinema italiano di quest’ultimo semestre. Confermiamo: si tratta di un lavoro intelligente, curioso e sperimentale che consente di osservare una realtà con uno sguardo diverso dagli stereotipi convenzionali. In particolare, ci propone una visione parziale, segmenti di immagini, di chi vive in una città troppo spesso rappresentata e semplificata nei suoi estremi: da un lato le consorterie camorriste che danno vita alle varie gomorre, dall’altro la Napoli colta, elegante, raffinata delle cravatte famose della riviera di Chiaia, delle belle case di Posillipo.
Il film, se tale può essere definito, è un “selfie” continuo ripreso dai due giovani protagonisti ricco di spunti e riflessioni sulle loro scelte di vita (quella di essere, appunto, “normali” cioè non impelagati con attività criminali: “ho provato a spacciare ma ho capito che non era vita per me”. Uno vuole fare, semplicemente, il parrucchiere e l’altro il cameriere. Il retropalco, lo sfondo, delle loro inquadrature, è sempre il Rione Traiano, dove difficile rimanere esentati dal clima di disagio, di difficoltà sociale, di pressione esercitata da una ambiente che ogni giorno deve fare in conti con una cultura della sopravvivenza e delle attività illecite. La sequenza di due ragazze, di appena 14 anni, che già immaginano quale potrebbe essere la loro vita nel caso dovessero trovare un marito che poi sarà condannato all’ergastolo è da vedere e rivedere più volte: una capacità attoriale che nemmeno dopo anni di scuola di recitazione è possibile ottenere con tale naturalezza. Vale per tutte le comparse e i soggetti che vengono inquadrati: sembra che da sempre hanno fatto gli attori quando invece, semplicemente, fanno la parte di se stessi.
Per questo abbiamo scritto che Selfie potrebbe non essere un film quanto più un documentario sociale, una analisi sociologica di grandissima attualità che non propone soluzioni o chiavi di lettura predefinite: mostra, illumina la scena, e basta. Attenzione però: è vero che lo sfondo è il Rione Traiano ma è altrettanto vero che si potrebbe trattare di una qualsiasi altra periferia urbana di altre città italiane, dove la disoccupazione giovanile, le tragedie legate allo spaccio e al consumo di droga sono pane quotidiano. Per tutto questo, il lavoro di Ferrente merita attenzione: anzitutto la novità di mettere nelle mani dei protagonisti la “macchina da presa” e lasciare a loro la sceneggiatura visiva, il racconto per immagini del loro mondo, le luci e le inquadrature in alcuni momenti di grandissimo effetto. Inoltre, il regista tocca un tasto importante della nostra attuale civiltà delle immagini: il selfie, appunto, cioè la volontà di rappresentare se stessi attraverso un cellulare o un tablet e riproporre la propria foto o video alla comunità di riferimento tecnologica, piccola o grande, per poi “misurare” il gradimento o il successo che si può conseguire attraverso i social di turno.
Un fenomeno che anche la politica ha fatto proprio come possiamo vedere ogni giorno attraverso i “comunicati video” o lo streaming in modalità selfie, appunto. Infatti, se questo film presenta un limite è proprio nella sua marcata collocazione in un ambiente, in una storia sociale molto circoscritta quando invece gli interrogativi e le analisi sulla diffusione così massiccia e pervasiva di questa modalità di comunicazione sono ancora tutti aperti e privi di risposte esaurienti e convincenti. Però, intanto, grazie a Ferrente che attraverso il grande schermo, ci aiuta a riflettere su questo tema senza scadere nel macchiettismo della solita commedia all’italiana che, alla fin fine, se la cava sempre buttandola sulla risata.