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Cina: la corsa dei salari non ferma l’export da record

La catena di montaggio del globo terracqueo si sta trasformando. Sempre meno assemblatore e sempre più produttore, Pechino riesce a smentire – almeno per il momento – le Cassandre che prevedono un imminente declino e compie quello che per alcuni è un miracolo: far crescere le esportazioni e, contemporaneamente, aumentare i salari. E mentre tutti si limitano a fare la cronaca del surplus commerciale da record che surclassa anche gli Stati Uniti, il New York Times prova a spiegare un nuovo imprevisto fenomeno in atto all’ombra della grande muraglia.

La Repubblica popolare ha appena annunciato il suo più grande surplus commerciale in dollari dal 2008: 259,78 miliardi, in crescita del 12,8% rispetto al 2012.

La Cina è riuscita a mantenere a pieni giri la sua macchina delle esportazioni nonostante la crescita dei salari. La paga degli operai è aumentata dalle cinque alle nove volte nell’ultimo decennio, incrinando la reputazione di Paese che produce massicciamente per l’estero grazie al costo del lavoro bassissimo.

L’impennata di salari e benefit riflette una grave carenza di manodopera manifatturiera. In Cina, di fatto, sta accadendo quello che è successo già in Occidente: le nuove generazioni preferiscono continuare a studiare e hanno cominciato a evitare le fabbriche, mentre le zone rurali della Repubblica popolare hanno praticamente esaurito le scorte di giovani da mandare in città.

Le esportazioni cinesi, per quanto crescano più lentamente di qualche anno fa, sono ancora lontane dallo stallo nonostante la scomparsa dei vantaggi legati al costo del lavoro. Gli esportatori assicurano di essere riusciti a tenere bassi i prezzi perché le fabbriche stanno diventando più produttive. La maggior parte della manifattura è rimasta in Cina proprio grazie alle filiere produttive altamente sviluppate – le migliori al mondo, suggerisce il New York Times – da e verso gli impianti di produzione.

La chiave di volta della Repubblica popolare sta esattamente nel fatto che non è più, soltanto, una enorme catena di montaggio. Negli ultimi anni molte aziende hanno spostato la produzione di componentistica da altri Paesi asiatici con un costo del lavoro più alto, come Giappone e Corea del Sud, alla Cina. Pechino, in pratica,  non sta più semplicemente assemblando prodotti creati altrove, ma si sta occupando di tutto il processo.

I salari cinesi, oggi, sono tre volte quelli dell’Indonesia, quattro volte quelli del Vietnam, cinque volte quelli della Cambogia e 10 volte quelli del Bangladesh. Il problema è che tutti questi Paesi presentano altre difficontà, come l’inadeguatezza delle infrastrutture e delle reti elettriche. E anche se in questi stati ci sono più investimenti esteri che nella Repubblica popolare, il New York Times ricorda che “la Cina investe ancora pesantemente nella Cina”, con gli imprenditori cinesi e le aziende di stato che hanno abbastanza liquidità da investire in tecnologia e innovazione.

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