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Cina, “il miracolo economico non è finito ma Pechino paga il ritardo delle riforme”: parla il sinologo Giorgio Trentin

FIRSTonline

Che cosa sta realmente succedendo oggi in Cina? L’estate è stata piena di notizie economiche, finanziarie e sociali decisamente negative per Pechino, ma capire quale sarà il futuro della fabbrica del mondo e del gigante asiatico non è affatto semplice. Lo sboom del settore immobiliare, che da solo vale il 30% del Pil e che per un quarto di secolo ha fatto da traino alla spettacolare crescita cinese, è sotto gli occhi di tutti, ma non è detto che sia la fine del suo miracolo economico. Quel che è certo però è che la Cina di oggi paga i ritardi delle riforme economiche e del welfare e l’indeterminatezza dell’era di Xi Jinping che segna più di una discontinuità rispetto all’era di Deng Xiaoping. La pensa così Giorgio Trentin, sinologo, docente di Lingua cinese e Storia contemporanea all’Università di Macerata, direttore a titolo gratuito dell’Istituto Confucio, figlio dello scomparso leader sindacale della Cgil, Bruno Trentin, e autore di svariati testi sul gigante asiatico. “La Cina che arriva” e “La Chiesa nascosta, un viaggio nella Cina cattolica” e “Chengyu cento aforismi della tradizione cinese”, sono i più noti. Quando gli si chiede che cosa l’abbia spinto a studiare la Cina, Trentin risponde così: “Avevo il gusto e la curiosità di alzare lo sguardo sull’altra parte del mondo”. E dagli anni dei suoi studi universitari alla Sapienza di Roma non ha mai smesso di coltivare la sua passione per la Cina e di approfondire la sua conoscenza rifiutando gli schemi ideologici e le interpretazioni stereotipate: Con questa intervista a FIRSTonline Giorgio Trentin ci aiuta a capire la Cina di oggi. Sentiamolo.

Nell’estate del 2023 la Cina ha collezionato una serie di notizie economiche, finanziarie, sociali e politiche inquietanti: dal default del colosso Evergrande alle insolvenze di Country Garden e Zhengrong allo sboom del settore immobiliare, dal rallentamento della crescita economica al calo dei consumi, dell’import e dell’export e alla deflazione, dal record della disoccupazione giovanile e alla sospensione delle statistiche sul lavoro fino alla svalutazione dello yuan sul dollaro. Che cosa sta realmente succedendo in Cina? È la fine del miracolo economico e la crisi del modello XI?  

«La risposta, dice un vecchio adagio popolare cinese, ha molte facce. La collezione di dati negativi provenienti dall’economia cinese tra la fine del 2022 e questo primo semestre 2023 crea un quadro non del tutto rassicurante più che sulla salute complessiva dell’economia sulla situazione delle politiche economiche messe in atto da Pechino. Ma il quadro è complesso, collegato a molti fattori – interni ed esterni – e va analizzato con prudenza. Guardando al caso Evergrande, per esempio, tutti abbiamo notato la corsa dei mass media occidentali – Stati Uniti in testa – nel gridare a gran voce che era completamente fallito il modello cinese, quel Beijing consensus che aveva garantito fino ad oggi la crescita della presenza cinese nei mercati industriali e finanziari internazionali. Pochi si sono soffermati ad evidenziare il fatto che la richiesta di bancarotta protetta presentata da Evergrande a New York riguarda solo le sue operazioni su suolo americano e con creditori americani, ovvero solo le sue operazioni d’oltremare. La dimensione del debito complessivo di Evergrande in patria è sicuramente elevata, ma non drammatica e, con le nuove riforme dei sistemi di ristrutturazione del debito che Pechino sta mettendo in cantiere e che chiamerebbero in campo nuovi sostenitori finanziari per il gruppo, il futuro di Evergrande potrebbe essere meno plumbeo di quanto si pensi. L’ipotesi, poi, di un effetto domino su scala mondiale, come fu per Lehman Brothers nel 2008, direi che almeno per ora è del tutto da escludere”

Perchè?

“La Cina gode in questo caso di una valuta sì in uno stato di debolezza, ma non completamente convertibile e dunque al riparo da tempeste o dal rischio di fughe di capitali su vasta scala. Con 3.000 miliardi di dollari di riserve, Pechino è ancora oggi perfettamente in grado di difendersi da attacchi speculativi al suo sistema finanziario. Certo, in queste circostanze la tempestività e le dimensioni di un intervento difensivo sono essenziali, e questo ci riporta ad un’osservazione del quadro da una prospettiva più squisitamente politica. Evergrande forse non crollerà in Cina, ma di sicuro la sua crisi ci parla della fine della crescita di un settore, quello immobiliare, che insieme a quello delle grandi opere ha fatto da traino per un quarto di secolo alla crescita industriale cinese -acciaio in testa- e alla creazione di grandi conglomerati di investimento finanziario in patria, ma soprattutto all’estero. Il settore immobiliare ha raggiunto il suo plateau e oggi si costruisce quasi il doppio di quel che si vende. La Cina deve cercare -e sta cercando- nuovi orizzonti verso cui indirizzare un nuovo slancio di crescita economica (in parte contenuti nel documento programmatico Made in China 2025), ma gli effetti positivi di queste nuove pianificazioni probabilmente cominceranno ad essere apprezzabili nell’arco di almeno un quinquennio e, dunque, gli effetti negativi del ritardo delle riforme delle politiche economiche e di quelle del welfare-altro elemento essenziale per la tenuta sociale e per la tenuta dei consumi interni- si potrebbero far sentire prima. Siamo di fronte alla fine del miracolo economico cinese? Non credo. Un setback di medio periodo sì, ma considerando la rotta intrapresa verso le alte tecnologie e anche il vasto consolidarsi di un fronte internazionale di cooperazione economica South-South di cui l’espansione del gruppo BRICS è solo l’aspetto più appariscente, l’idea di una ripresa economica cinese con crescita di Pil anche intorno all’l’8-9% entro la fine del prossimo decennio non è del tutto peregrina».

Gli osservatori delle vicende cinesi sembrano dividersi tra chi pensa che le origini della crisi siano politiche, legate all’autoritarismo e allo statalismo di Xi e unite alle tensioni internazionali, e chi ritiene invece che alla base delle attuali difficoltà cinesi ci siano ragioni economiche, a partire dalla crisi del settore immobiliare che forse ha avuto una crescita drogata da un eccesso di investimenti e da finanziamenti facili dello shadow banking. La sua opinione qual è?

«Anche in questo caso la risposta è multiforme, così come tutte le ipotesi in campo contengono una parte della risposta. Negli anni ’90 del secolo scorso, nella fase più matura di quella politica di “riforma e apertura” inaugurata da Deng Xiaoping con il terzo plenum dell’XI Congresso del 1978, si è generato un patto sociale fra Partito e Paese che metteva in campo la libertà di fatto per i cinesi di poter scrivere il proprio destino economico, in cambio di consenso politico per il ruolo guida del PCC. Su questa base, si è venuta a formare la nuova classe imprenditoriale cinese, che ha imparato a muoversi con successo in contesti delicati, in cui il confine tra economia pubblica e “non pubblica” (evitiamo di parlare di economia “privata”) era quanto mai osmotico e labile, beneficiando di generosissimi finanziamenti da parte di un sistema bancario che altrettanto stava imparando a muovere i primi passi negli investimenti di capitale e che, soprattutto, rispondeva a Pechino e non ai mercati. Il Partito, a sua volta, seguiva un modello- inaugurato da Deng con la fine del maoismo- di ricambio di leadership ogni dieci anni, elemento questo che garantiva priorità alla governance del Paese, non al leader. Il Partito viene prima dell’uomo al comando. Poi è arrivato Xi. Dieci anni di politica costruita intorno alla lotta alla corruzione, al ripristino di un ruolo centrale dello Stato in tutti i settori dell’economia e all’utilizzo dell’economia come strumento di public diplomacy nelle relazioni internazionali, hanno finito per generare i loro frutti non positivi nell’economia del Paese, causando una depressione generale di buona parte dell’imprenditoria non pubblica sempre più timorosa di divenire bersaglio della lotta alla corruzione, un utilizzo della clava fiscale come arma di coercizione e domesticazione verso quegli imprenditori troppo in vista e troppo vicini al profilo di “oligarca” (Jack Ma), la chiusura dei rubinetti bancari per quelle nebulose finanziarie troppo complesse e articolate e, quindi, difficili da controllare (Evergrande) e, infine, l’acuirsi di tensioni economiche internazionali nel contesto delle quali l’opinione pubblica occidentale ha finito per sovrapporre l’immagine di un’aggressività industriale da parte di un attore economico a quella dello Stato cinese (Huawei)».

Recentemente il Presidente Xi ha dichiarato che la Cina è di fronte a «cambiamenti mai visti in un secolo» ma, davanti alla rabbia dei giovani diplomati e laureati senza lavoro, arriva a dire crudamente: «Imparate a mangiare amarezza». Non sembrano segnali confortanti, ma esattamente che cosa vuol dire Xi e che cosa pensa di fare dopo aver vinto l’ultimo congresso del partito?

«È straordinario vedere quanto la lingua di un popolo sia un elemento identitario che, se mal reso nella lingua dell’altro da sé, può indurre grandi equivoci e misinterpretazioni. I cinesi raramente ricorrono ad espressioni di grandiosità per descrivere il tempo in cui vivono e spesso le espressioni che utilizzano sono piuttosto aperte a prospettive non necessariamente solo positive. Anche Xi Jinping non fa eccezione. Con l’espressione “cambiamenti mai visti in un secolo” Xi intende dire che la Cina è posta di fronte ad un periodo di sfide e cambiamenti economici e sociali senza precedenti ai quali non può sottrarsi. Credo che questa sia un’affermazione non necessariamente di grandeur e che potrebbe riguardare anche tutte le nostre realtà occidentali. Si prende atto che -a livello mondiale- l’ordine post Yalta sta sempre più venendo meno, che lo stesso concetto westfaliano di Stato-nazione è ormai superato dalla comparsa di nuovi aggregatori di interessi sociali e di attori nazionali e transnazionali non statali. Un nuovo modello di ordine internazionale non è all’orizzonte e il multipolarismo sembra a molti -non agli Stati Uniti- un punto di ripartenza essenziale per il governo dei cambiamenti in atto nel presente. In un quadro come questo, ricco di sfide ma anche di potenzialità, l’espressione cinese “chiku” (letteralmente “mangiare amaro”) usata da Xi sta a significare “tener duro”, saper “sopportare le avversità”, in un’ottica di cammino verso la costruzione di un futuro migliore”.

Non crede che la delusione dei diplomati e laureati cinesi che spesso non trovano lavoro possa provocare la rottura del patto sociale tra le nuove generazioni e il regime?

Certo quella di Xi è retorica politica che stride non poco con i dati sulle nuove generazioni che il governo fino a poco fa sciorinava con gran orgoglio e che adesso invece mette a tacere con il pretesto di una ridefinizione dei parametri di calcolo. Secondo gli ultimi rilevamenti relativi all’occupazione urbana (un dato dunque parzialmente relativo), a fronte di un tasso di disoccupazione complessivo che si mantiene tutto sommato stabile intorno al 5,3%, la disoccupazione della fascia di età 16/24 lo scorso giugno ha superato la soglia della comfort zone raggiungendo il 21,3%. Il dato, lo ripetiamo, è parziale perché è su base mensile e relativo solo alle aree urbane, però è allo stesso tempo un campanello d’allarme su uno stress sociale che sta coinvolgendo molte delle famiglie del ceto medio cinese, i cui risparmi sono da tempo vincolati alle spese relative alle due voci in bilancio: l’acquisto immobiliare e la formazione dei figli. Si deprimono i consumi domestici limitati a una crescita del solo 2,5% che preoccupa gli analisti e che induce il governo ad accelerare misure di stimolo come il recente abbassamento del tasso di riferimento per i prestiti a medio termine da parte della Banca Popolare Cinese (la banca centrale del Paese), per incoraggiare le banche a concedere più credito e a condizioni più vantaggiose in modo da incidere sui consumi. Queste sono però misure tampone ed è solo da una concreta ristrutturazione dei piani industriali e delle politiche nazionali di investimento che può venire una risposta sistemica alle preoccupazioni occupazionali dei giovani laureati cinesi. La Cina ha sicuramente bisogno di un nuovo patto sociale per il XXI secolo di Xi Jinping, un patto che per ora ha preso gli altisonanti nomi di “sogno cinese” e di “grande rinascita della nazione cinese”, ma che ha contenuti che rimangono ad oggi poco più che dichiarazioni programmatiche. Dopo il XX congresso Xi ha tutto il potere nelle sue mani e ha invertito il modello di governance inaugurato da Deng. Ora il leader viene prima del Partito stesso e anzi lo forma a immagine della propria personalità. È improponibile cercare di rispondere oggi alla domanda se Xi ce la farà ad indirizzare stabilmente il Paese su un nuovo percorso di sviluppo economico e a firmare un nuovo patto sociale, perché i parametri di valutazione sono troppo numerosi e di natura estremamente diversa. È improbabile, altrettanto, immaginare una rottura secca e definitiva del patto sociale teoricamente ancora in vigore, perché quello metterebbe davvero in crisi ogni aspettativa di benessere e di raggiungimento di status da parte del ceto medio cinese. Dunque i cinesi continueranno ancora a credere nel nuovo “sogno cinese”, sperando di riuscire -nel medio termine- a vederne definiti i contorni lungo le nuove linee di sviluppo dell’era Xi Jinping».

Quanto pesano sulla Cina le tensioni internazionali, e in particolare lo scontro aperto con gli Usa  e la recente costituzione dell’intesa trilaterale anti-cinese tra Usa, Giappone e Corea del Sud che a settembre potrebbe allargarsi al Vietnam?

«Le tensioni internazionali hanno un peso notevolissimo sulla Cina, anche perché il Paese ha abbandonato definitivamente quel basso profilo diplomatico imposto come dogma da Deng fin dagli anni ’90 nelle relazioni esterne per garantire alla Cina un’ampia area di dialogo internazionale che facilitasse l’attrazione di investimenti stranieri. L’amicizia con gli Stati Uniti è solo un vago ricordo e oggi siamo nel pieno della “wolf warrior diplomacy” inaugurata da Xi e guidata dai suoi uomini più fedeli al Ministero degli Esteri come l’ex portavoce Zhao Lijian. Ad ogni azione assertiva degli Usa deve corrispondere una risposta altrettanto assertiva da parte cinese. Nell’ambito delle guerre commerciali di Trump e ancor più oggi con la corsa al controllo delle super tecnologie, gli americani si sono impegnati non poco nel disegnare l’immagine del nuovo nemico cinese, cercando poi di imporla nelle opinioni pubbliche di tutti i Paesi alleati (persino al Vaticano) nell’ottica di un imminente scontro di civiltà tra “Occidente libero e democratico” e “tirannide cinese”. Dall’inizio della guerra in Ucraina non si contano più le dichiarazioni di alti esponenti delle forze armate americane riguardo il fatto che questo è solo il primo atto di una guerra con la Cina che scoppierà entro al massimo i prossimi quindici anni. Hanno addirittura creato un nuovo campo di gioco nel già delicato Risiko internazionale, quell’area Indo-Pacifico di interesse strategico internazionale che non è mai esistita fino al momento in cui non si è sentito il bisogno di contenere l’espansionismo cinese e di dispiegare le prime sigle del baluardo democratico occidentale: AUKUS, Quad e ora il triangolo difensivo Usa-Giappone-Corea. La risposta cinese a quest’ultima mossa è stata duplice: prima ha parlato la “wolf warrior diplomacy” con le massicce esercitazioni militari nello stretto di Taiwan a severo ammonimento a non interferire negli affari interni cinesi (Taipei è Cina), ora sta parlando il vertice dei BRICS in corso a Joahnnesburg. Fortemente ispirato da Xi, il vertice ha annunciato l’allargamento del gruppo ad altre 6 nazioni (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti), divenendo, con il 36% del PIL mondiale, il polo principale di un sistema di cooperazione politica ed economica South-South (sempre più indifferente alla visione occidentale del mondo) e arrivando -provocatoriamente per ora- all’annuncio dell’introduzione di una nuova valuta (R5) da usare in alternativa al dollaro nelle transazioni fra Paesi membri del gruppo. Forse, se da parte degli Stati Uniti continuerà questa logica di contrapposizione diretta con la Cina (logica in cui l’Europa -se esiste ancora- probabilmente giocherà un ruolo di acritica adesione al campo americano), lo scontro politico, economico e di modelli di sviluppo di cui amano parlare i generali americani potrebbe non essere fra “Occidente libero e democratico” e “tirannide cinese”, ma fra “Occidente libero e democratico” e Sud del mondo».

Più che un improbabile effetto Lehman sul sistema finanziario internazionale dovuto ad Evergrande, tutto il mondo (e in primo luogo i Paesi che esportano molto in Cina come l’Italia) sono in allarme per il probabile calo del commercio mondiale derivante dal rallentamento economico della Cina: di fronte a tante nubi intravede qualche spiraglio che possa alimentare le speranze delle imprese italiane ed europee di un ritorno alla normalità dell’interscambio?

«La risposta a questa domanda è strettamente legata alle circostanze e alle variabili internazionali che abbiamo illustrato poco fa. Non è solo il rallentamento economico della Cina a determinare un calo dell’interscambio commerciale, ma anche il riallineamento di diversi segmenti in un quadro geo-politico dalle forti ricadute economiche. Il cosiddetto decoupling fra Stati Uniti e Cina è ormai in una fase già avanzata, con la reciproca esclusione commerciale e di investimenti da settori fondamentali come le comunicazioni o l’esplorazione spaziale. Ora gli Stati Uniti stanno chiedendo abbastanza apertamente a diversi Paesi alleati (come l’Italia) di comportarsi di conseguenza e di riportare indietro le lancette della storia, ad una logica esclusivamente atlantica degli scambi e degli investimenti, arrivando ad immaginare risposte alternative alla Belt and Road Initiative come la fantomatica Build Back Better World ad un costo però tutto americano. L’Italia, che nel 2019 con il governo Conte era stato il primo Paese del G7 ad aver aderito alla Belt and Road Initiative e che ora con il governo Meloni ha promesso agli Usa una marcia indietro, si trova a dover tentare di mettere in atto un’azione davvero rocambolesca: non rinnovare gli accordi BRI con Pechino e allo stesso tempo garantirsi un mantenimento -se non un auspicato incremento- del volume di scambi commerciali con la Cina”

Pensa che l’equilibro della Meloni possa avere successo?

“E’ un tentativo audace. Difficile. Quando l’Italia firmò gli accordi BRI nel 2019, i grandi d’Europa, Francia e Germania, criticarono aspramente la scelta del governo Conte definendola un pericoloso appiattimento sulle politiche commerciali cinesi da cui invece l’Unione Europea doveva cercare una sempre minor dipendenza. La verità è che Francia e Germania erano e sono partner commerciali della Repubblica Popolare Cinese ben più rilevanti di quanto non lo fosse e non lo sia l’Italia, e che forse più che altro temevano ricadute economiche sui loro mercati interni derivate da un maggior coinvolgimento italiano negli scambi con la Cina. Questo è forse uno degli elementi più determinanti nel tentare una risposta alla domanda: l’assordante assenza di una politica commerciale congiunta europea, l’assenza di un ruolo terzo della UE nella contrapposizione bipolare Usa-Cina. L’Unione Europa è purtroppo ancora solo un’unione valutaria. Per il resto rimane solo una somma di interessi ed egoismi nazionali non disposti a fondersi in una politica economica congiunta e coerente. Le sorti dei futuri scambi economici fra l’Italia e la Cina sono dunque tutte nelle sole mani dell’Italia e dei suoi bisogni di allineamento politico con alcuni Stati e di oggettiva necessità di scambi commerciali con altri. Vedremo se e come il nostro Paese riuscirà funambolescamente a mantenere la parola data a Washington e a mantenere buoni rapporti con Pechino, schivando per altro i colpi di altri Paesi europei che, non avendo l’imbarazzo di dover sciogliere i propri impegni BRI, saranno molto più liberi di noi rispetto alle richieste americane e cercheranno sicuramente di incrementare i volumi di scambio con la Cina non avendola offesa con una brusca uscita dalla Belt and Road Initiative».

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