L’ingorgo all’imbocco del porto di Yiantian, lo scalo dei container in uscita da Shenzhen, non aumenta solo perché le fabbriche del Guangdong, la regione più popolosa della Cina che genera più di un decimo dell’export, stanno frenando le consegne. O, addirittura, sospeso l’attività per non aggravare la situazione. Ma la situazione non migliora: davanti al porto stazionano decine di navi in attesa di poter imbarcare i container, almeno 160 mila, che hanno riempito ogni angolo del porto, grande una volta e mezzo lo scalo di Los Angeles, il più importante degli Stati Uniti. Nell’area Shenzen il blocco riguarda anche Shekou, ma il blocco ha colpito anche Guangzhou, dove c’è il porto di Nansha.
A che si deve il grande stop? La spiegazione ufficiale parla di un’impennata della pandemia, ricomparsa a sorpresa nel cuore della macchina produttiva cinese. Di fronte ai numeri ed alle varianti in ascesa, Pechino ha deciso di fermare le attività portuali, foriere di nuovi contagi, per il tempo che sarà necessario. Ma, come sempre capita quando si parla del Celeste Impero, non mancano i sospetti: potrebbe essere una rappresaglia dopo le accuse occidentali sull’origine del Covid-19, forse fuggito dai laboratori di Wuhan; un modo per esportare nuova inflazione in Usa attraverso l’aumento dei noli, schizzati alle stelle: il prezzo per trasportare un container fino alla West Coast è schizzato sù del 63% secondo l’indice Baltic Dry, a fronte di un boom di richieste di trasporto, salite del 45% rispetto ad un anno fa. Per ora destinate a restar inevase perché il porto lavora al 30% delle sue possibilità. E chissà quanto ci vorrà per portare alla normalità: settimane, se non mesi, più del tempo impiegato per riportare sui binari l’attività sul canale di Suez dopo l’incidente dei mega-cargo.
No, non è una crisi locale all’interno di una delle arterie più sensibili del traffico internazionale. L’aumento dei noli, avverte il ceo di Maersk, il gigante dei trasporti marittimi, si trasmetterà immediatamente sui beni in vendita presso Wal-Mart e Home Depot, i colossi dei beni di consumo che hanno le loro basi logistiche nelle prossimità del porto. Ma gli effetti si sono già trasmessi al resto dell’economia, a partire dai sempre più introvabili chips. Anche perché l’allarme Covid-19, informa il Wall Street Journal, ha investito pure Taiwan, finora relativamente immune ai contagi. Al contrario 200 dipendenti della King Yuan Electronics sono risultati positivi, altri 2 mila sono finiti in quarantena. Ed il bollettino di guerra si allarga ad altri Paesi del Sud Est asiatico: in Malaysia, ad esempio, le produzioni di chips sono scese fino al 40%, colpendo anche la fabbrica della tedesca Infineon: una pessima notizia per i Big dell’auto tedesca.
Accanto all’inflazione scatenata dal boom della domanda, dunque, l’economia globale deve fare i conti con il problema dell’offerta, a partire dai numerosi colli di bottiglia provocati dall’euforia della ripresa. Un fenomeno che imporrà di rivedere le tabelle di marcia delle nuove politiche economiche: secondo l’Economist, un paniere delle cinque materie prime essenziali per l’auto elettrica è cresciuto del 149% in 12 mesi: quanto inciderà l’aumento nelle decisioni di investimento? E la penuria di materiali, combinata con l’aumento dei prezzi, quanto e come inciderà nelle abitudini dei consumatori? Le bustine di Ketchup, avvertono i giornali Usa, stanno scomparendo dai fast food per l’aumento della pellicola metallica della bustina mentre da Starbuck è scomparso il succo di pesca da aggiungere al thé o i complementi essenziali per il caffè da passeggio. Piccoli intoppi, per ora, che accompagnano una ripresa più robusta del previsto. Per la gioia di Costco, il colosso cinese dello shipping cresciuto ieri del 14% ai massimi da un decennio. Anche D’Amico, leader italiano dello shipping torna a muoversi dopo un anno difficile: negli ultimi sei mesi il titolo è salito del 24% e tende ad accelerare.