Martedì Jack Ma, l’ex insegnante di inglese che ha creato Alibaba, annuncerà il prezzo di offerta delle azioni di Ant Group, il colosso dei servizi di pagamento (Alipay) e del credito (Sesame) che conta poco meno di 500 milioni di clienti. L’obiettivo è di collocare, tra Shanghai ed Hong Kong, titoli per 35 miliardi di dollari (grosso modo il 10% del capitale) in quella che sarà l’Ipo più ricca della storia, più del collocamento della saudita Aramco.
Le cifre in gioco si giustificano con il successo della rivoluzione scatenata dal Jeff Bezos cinese. Jack Ma, infatti, non si è limitato a creare un sistema per sostituire il contante, ma ha sviluppato la concorrenza a tutto campo alle banche, offrendo un po’ di tutto, dall’alternativa agli spiccioli per una tazza di tè ai fondi pensione, mutui e così via. Uno sviluppo che pone non pochi problemi i regolatori, compresa la banca centrale. “Sono preoccupazioni – ha detto Ma – che riflettono le paure di società vecchie, che pensano più a contenere i rischi piuttosto che a creare sviluppo”.
Lunedì, in apertura di settimana, si è aperto il XIX Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese che di qui a giovedì traccerà le linee generali del Piano di sviluppo di qui al 2025. Che rifletterà un doppio traguardo: da una parte aumentare il peso della domanda interna sull’economia, limitando la dipendenza dall’export, dall’altro l’autosufficienza tecnologica del Drago, cosa che suona sinistra a Taiwan, il centro dell’industria mondiale dei chips circondata dalla flotta di Pechino, ma ben difesa dagli alleati Usa.
Ecco due dei tanti esempi che ogni giorno confermano l’ascesa del colosso giallo, ormai capace di sostenere il duello con Washington. Qualcosa di più e di diverso dalla Guerra Fredda con l’Urss perché la sfida, stavolta, oltre che politica e militare, è soprattutto economica e finanziaria. E a conferma dell’appeal della Cina, anche nei confronti dei Grandi di Wall Street, ecco quel che ha scritto nel weekend Ray Dalio di Bridgewater, uno dei più famosi tycoon. “Da sempre – ironizza – senti dire che il modello cinese non può funzionare, perché è autoritario, non offre spazio alla fantasia o alla creatività. Peccato che ogni giorno quel modello registra successi eccezionali, dal Covid–19 alla bilancia dei pagamenti”. “Certo – scrive ancora l’amico di Warren Buffett – le cose possono andare storte. Nessuno sa dove ci porteranno i conflitti commerciali e chi vincerà”. Per questo “val la pena di investire in entrambi i Paesi ma se penso al livello di istruzione, ai ritmi di lavoro ed alla conflittualità, credo che la Cina sia destinata a prevalere”.
Ha ragione Dalio? E vale la pena di seguire il suo consiglio allargando il portafoglio ai listini di Shanghai o Shenzhen? Oppure, non meno importante, puntare sui bond? Anche per effetto dell’apprezzamento dello yuan, aumentano infatti gli acquisti di obbligazioni cinesi: Bloomberg calcola che nel terzo trimestre si è arrivati ad una quota record di 439 miliardi di yuan di carta cinese detenuta da investitori esteri. I titoli di stato cinesi, acquistabili anche attraverso Etf su tutte le scadenze, hanno rendimenti interessanti. Il decennale rende il 3.10 per cento a fronte di una valuta solida che da dieci anni oscilla attorno a quota 7 sul dollaro.
Certo, l’azionario presenta rischi più elevati, soprattutto di fronte ad un eventuale cambio di orientamento americano dopo le elezioni: senza trascurare i dubbi sul Covid. Quanto all’obbligazionario, va ricordato che gli indici di borsa (su cui spesso sono costruiti gli Etf) contengono una quantità significativa di grandi carrozzoni pubblici di dubbia profittabilità. Meglio puntare sulle aziende private che si rivolgono al consumatore urbano cinese delle città intermedie, quello che aspira alla qualità ma non può permettersi il grande marchio globale. Comunque è abbastanza facile prevedere un forte aumento delle azioni cinesi nei fondi. Il Celeste Impero è più vicino.