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Ci vorrebbe una politica industriale per la crescita che in Italia manca

Il governo Renzi è riuscito ad attrarre investitori esteri in Italia modificandone le aspettative e consentendo loro di accedere alle leve di comando nelle storiche imprese siderurgiche e meccaniche ma in Italia manca una strategia industriale come supporto alla crescita e come punto di riferimento per la grande e media impresa.

Ci vorrebbe una politica industriale per la crescita che in Italia manca

Recentemente la grande impresa italiana è oggetto dei desideri dei grandi gruppi finanziari e industriali della Russia e dell’Asia. Le imprese di questi Paesi sono attratte dal loro potenziale tecnologico, dall’opportunità di avere un accesso privilegiato nell’ambito della UE e dalla possibilità di attenuare il rischio di cambio derivante dal duopolio euro – dollaro. Meno interessante per la crescita economica dell’Italia qualora la loro entrata avesse come obiettivo la loro posizione di mercato nell’UE poiché sarebbe sovente inevitabile la successiva chiusura della manifattura italiana.

Purtroppo questa strategia importata non si accompagna con la nascita in Italia di nuove imprese innovative a elevato contenuto tecnologico in cui sia integrata manifattura e servizi. Anzi, si registra un’uscita di grandi imprese italiane verso Paesi che hanno un Fisco meno penalizzante e hanno tassi d’interesse più economici perché non influenzati dalla raccolta dello Stato.

All’inizio degli anni novanta, i Governi italiani dell’epoca non consideravano una priorità l’elaborazione di una strategia industriale e come giustificazione portavano il veto comunitario agli aiuti di Stato e anche la parcellizzazione delle competenze fra Stato ed Enti locali e la presunta esigenza di liberalizzare l’economia italiana, in effetti, la classe politica voleva evitare conflitti con le Grandi Imprese e le Grandi Banche. 

Nel 1992, la riforma della legge bancaria del 1936 aveva contribuito alla fine dell’IRI e aveva creato le condizioni finanziarie per consentire alla Finanza italiana di partecipare alla privatizzazione delle imprese pubbliche operanti nei servizi e dotate di considerevoli profitti e cashflow (assicurazioni, autostrade, informatica, difesa, grande distribuzione, ecc.). I Gruppi privati si erano concentrati sul profitto di breve periodo e sulla ricerca della rendita, ossia sui settori oligopolistici a scarsa concorrenza e soggetti a un controllo pubblico, diretto oppure indiretto, perciò più facilmente influenzabile. 

Nei servizi di TLC, invece, vi erano rilevanti appetiti italiani ed esteri, ma anche grande confusione e necessità di ingenti capitali per adeguarsi alla dinamica dirompente del progresso tecnico. Il Tesoro, responsabile delle privatizzazioni, aveva concentrato la sua attenzione solo sul rispetto delle regole (giusto) e sulla velocità del processo (una strategia non sempre efficiente) ma senza considerare la politica industriale una priorità nella selezione dei compratori. La conseguenza è stata la perdita di conoscenza tecnologica del settore pubblico e quindi del controllo sull’evoluzione delle tecnologie e delle innovazioni imprenditoriali poiché sono mancate le competenze e le professionalità. 

Purtroppo, negli ultimi trenta anni, l’Industria italiana si è distinta negativamente per: 1) gli insufficienti investimenti nella ricerca applicata; 2) la prevalenza della finanza rispetto alla produzione (specie negli anni del tassi di interesse elevati); 3) la strategia finanziaria finalizzata alla gestione del capitale circolante e in particolare del cashflow; 4) la strategia industriale finalizzata, prevalentemente, alla riduzione dei costi mediante la destrutturazione e la delocalizzazione di fasi del processo produttivo.

La distribuzione del potere all’interno dei grandi gruppi non si è modificata con la riduzione dei tassi di interesse e nonostante la crisi finanziaria mondiale che avrebbe dovuto suggerire cautela nella gestione della finanza aziendale. Inoltre, le pesanti crisi finanziarie hanno accentuato l’attenzione sul pericolo di default delle banche e perciò sono stati imposti ulteriori pesanti vincoli alla concessione di credito specie alle PMI ostacolando, di fatto, il finanziamento delle iniziative industriali e aumentando il costo del denaro per le poche imprese italiane che potevano finanziarsi sui mercati finanziari esteri. 

Recentemente, il governo Renzi è riuscito a modificare le aspettative degli investitori esteri consentendo loro di accedere alle leve di comando nelle storiche imprese siderurgiche e meccaniche un tempo in mano pubblica, nelle imprese proprietarie delle reti e delle industrie di base, solo per citare la situazione nei settori strategici. Infine, i soliti finanzieri bene informati insinuavano che potesse essere messa in vendita la SAIPEM, una delle poche imprese italiane che ha una posizione dominante in un settore strategico. 

Per difendere una parvenza di tricolore, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) ha intermediato ingenti risorse finanziare fra risparmiatori italiani, Stato e imprese avendo doverosamente, come priorità, la salvaguardia del suo l’investimento e la piena responsabilità nei confronti della BCE. Così facendo la CDP si comporta come un risparmiatore che non avrebbe il potere per contrastare l’azionista di maggioranza (cinese, russo, indiano, giapponese, ecc.) qualora quest’ultimo decidesse di uscire dal business, diventato passivo, portando con sé il tesoro delle relazioni e delle conoscenze collegate all’attività produttiva sviluppata in Italia. 

Il Governo italiano non avrebbe bisogno della golden share per trattare con gli investitori esteri perché le conseguenze negative delle eventuali strategie dell’incomer andrebbero a gravare sul bilancio pubblico italiano. Recentemente il Presidente del Consiglio ha dichiarato che non spetta al Governo definire la politica industriale dimostrando, così, un’originalità politico-economica che l’Italia ha avuto raramente e lasciando intendere un comportamento pilatesco nei confronti di un eventuale conflitto fra le grandi imprese italiane.Sullo sfondo vi è la presunta assegnazione all’ENEL del compito di realizzare l’investimento nella rete a banda larga ma non è chiaro chi avesse questo potere di decisione. Ritenevo che questa assegnazione rientrasse fra le competenze associate alla golden share, evidentemente mi sbagliavo. 

L’affermazione di Renzi e il silenzio della ministro per lo sviluppo economico dimostrano, se fosse necessario, che manca una strategia industriale come supporto alla crescita e come punto di riferimento per la grande e la media impresa italiana ammesso che entrambe decidano di investire in Italia superando anche ostacoli come l’invecchiamento degli imprenditori. Non è questa la sede per suggerire una politica industriale che deve essere il risultato di un gruppo di esperti ma alcune azioni sono state ripetutamente richiamate in questi anni. 

Fra queste, le più note intendono favorire: 

a) le fusioni nelle medie imprese difendendo, però, l’unicità di comando ( missione quasi impossibile con i nostri imprenditori); 

b) la crescita delle PMI innovative e delle start up originate nelle imprese, nelle università e nei centri di ricerca (facile nascere, difficile crescere in Italia.);

c) le reti di imprese medie e piccole dotandole di servizi basati sulla conoscenza e sulle ICT ( difficile se non si superano i conflitti locali presenti anche nei distretti).

In conclusione, è augurabile che vi sia una sede che elabori una politica industriale a tutela di interessi pubblici generali, senza essere condizionata da pressioni politiche locali e da interessi privati. Una soluzione potrebbe essere il ritorno a centri di decisione e a istituzioni finanziarie private a medio e lungo termine che siano indipendenti dai Grandi gruppi Italiani e dalle Banche e siano dotate di strumenti conoscitivi, di poteri, di risorse umane e di capitali per finanziare gli investimenti pubblici e privati a medio e lungo termine. 

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