C’era da aspettarselo. Fino a poco tempo fa si accusava Renzi di fretta eccessiva e di mettere troppa carne al fuoco. Ora,improvvisamente, lo si accusa di aver perso slancio nel suo impegno riformista e di rischiare di adagiarsi nella routine del “tirare a campare” di andreottiana memoria. Il Corriere della Sera si fa paladino di questo nuovo stato d’animo prima con Michele Salvati che trascinato dal suo pessimismo ormai totale, pronostica l’incapacità del PD di portare a termine le riforme. Poi Alesina e Giavazzi, vedono nel Def appena approvato, una resa di Renzi ai partiti ed alle corporazioni che si oppongono a qualsiasi cambiamento, tanto da indurre il Governo a rinunciare a qualsiasi forte indirizzo riformista per ripiegare su piccole trovate come quella del “tesoretto”.
Non si può dire che le preoccupazioni ed i rilievi dei vari professori siano del tutto infondate. E’ vero che il Def procede lungo una strada giusta di riduzione del carico fiscale e di riforma del settore pubblico, ma lo fa in maniera troppo modesta, con il passo della burocrazia e non con quello che la drammatica situazione dell’occupazione richiederebbe. Manca il colpo d’ala. Manca una proposta forte di riforma del settore della spesa pubblica che vada al di là della pur necessaria spending review. Manca la volontà o la capacità di proporre agli italiani un rinnovamento completo del welfare, dalle Università alla Sanità , fino al necessario accorpamento delle Polizie, ed alla profonda revisione della Giustizia.
Ma il rimbrotto è inviato all’indirizzo sbagliato. A ben guardare è il groviglio di interessi economici e politici che hanno ingabbiato la società italiana, che tramite le lentezze ed a volte il filibustering parlamentare stanno rallentando il ritmo delle riforme in maniera inaccettabile. E quasi sempre gli emendamenti parlamentari, lungi dall’essere migliorativi, tendono semplicemente ad attenuare la spinta innovativa del provvedimento in discussione, con l’intento, spesso riuscito in passato, di lasciar passare una riforma che lascia tutto come stava. Basti vedere quello che è successo in commissione nei sei mesi di discussione della proposta Madia di riforma della PA.
Renzi sembra ben intenzionato a non rassegnarsi al tran tran del potere, ma forse gli opinion leaders dovrebbero spiegare meglio alla gente quale partita si sta giocando e chi sono i veri frenatori, in modo da consolidare il consenso in favore dei cambiamenti. Perché una cosa è certa : senza consenso le riforme non si possono fare. Il che la dice lunga su tutte le chiacchiere sulla democrazia autoritaria che tanti politici, spinti da interesse egoistici stanno diffondendo, cercando di avvelenare il miglioramento del clima di fiducia degli italiani che pure si sta lentamente diffondendo.
Politicamente Renzi è costretto in questo momento a puntare tutte le sue carte sulla riforma della legge elettorale, attaccata con argomenti chiaramente strumentali (cioè totalmente infondati e mirati solo a non regalare un ennesimo successo al Governo). E’ evidente che l’Italia, come dice Michele Salvati, soffre di varie malattie, tutte abbastanza gravi, e che per curarle ci vorrà tempo e coraggio. Ma da dove cominciare? Se non si ripristina un corretto funzionamento delle istituzioni e quindi della burocrazia, qualsiasi riforma, anche quella che riuscisse a superare gli ostacoli delle corporazioni rappresentate in Parlamento, verrebbe poi affondata dalla incapacità degli uffici di darne pratica attuazione.
Si veda a riguardo la fine che ha fatto il provvedimento, finanziato dalla UE, sulla disoccupazione giovanile. Per non parlare della nostra cronica incapacità a fare le opere pubbliche che pure tutti invocano come toccasana per la nostra disoccupazione. E qui arriva il problema dei nostri rapporti con Bruxelles.
Sicuramente in una situazione come l’attuale le rigide regole del fiscal compact potrebbero essere allentate specie per i paesi come la Germania che non hanno problemi di squilibri strutturali. Ma anche per l’Italia, visti i bassissimi tassi d’interesse ha veramente senso forzare la marcia verso il pareggio di bilancio? Perché dobbiamo portare fin dal prossimo anno il deficit strutturale quasi al pareggio? Non potremmo giocarci un punto di PIL (15 miliardi di Euro) per cercare di accelerare la crescita arrivando il prima possibile più vicino al 2%? Il problema per noi non è solo convincere Bruxelles, ma anche stabilire come far arrivare questi soldi in più verso gli investimenti e non gettarli nel solito calderone improduttivo delle spese correnti.
Il Def non è ancora un documento che delinea nei dettagli le politiche da fare. Si tratta di linee generali che possono essere puntualizzate e rafforzate, man mano che si procedere con le riforme che devono dare una prospettiva di miglioramento della competitività italiana. Ma soprattutto, specie gli intellettuali, non possono farsi prendere dall’ansia dei risultati immediati. In questo momento dobbiamo tener duro confermando una politica che senza colpi di testa,sia in grado di consolidare la fiducia dei nostri Partners e degli investitori internazionali.
Per farlo dobbiamo far passare le riforme a cominciare da quella elettorale, ormai nella fase finale. Un rinvio dell’approvazione dell’Italicum con nuovo passaggio al Senato (dove la maggioranza) è meno solida, darebbe un colpo a Renzi, facendo tornare in tutti gli osservatori internazionali i dubbi sulla reale volontà dell’ Italia si fare le riforme.