I mercati finanziari giocano un ruolo fondamentale nel sistema economico moderno: reperire risorse per chi non ne ha. Il debito, perciò, è parte integrante del capitalismo moderno. Negli ultimi vent’anni l’espansione del debito è stata un fattore determinante per la crescita del reddito e pro-capite, ma, oggi, dopo anni di inarrestabile crescita, ci si chiede se non siamo andati troppo oltre.
Di per sé, contrarre un debito non dovrebbe essere visto come un “disonore”, ma come un’opportunità funzionale al raggiungimento di un obiettivo che crei valore, come l’acquisto di una casa o l’investimento in un macchinario. Per gli investitori, al di là del livello d’indebitamento, è essenziale capire come tale debito viene impiegato. Anche perché, fino a quando il rendimento atteso dell’investimento è superiore al costo del debito, la solvibilità del debitore non è a rischio ed il creditore può dormire sonni tranquilli. Tuttavia, la solvibilità di un debito, ovvero la capacità di rimborsarlo, può essere messa a rischio dall’evoluzione esogena dei mercati. La crisi della zona Euro è un buon esempio.
Nel 2011, quando la fiducia dei mercati nei confronti dell’Eurozona ha iniziato a vacillare facendo salire gli spread, Paesi come l’Italia, che fino al giorno prima erano solvibili – e nei fatti lo erano -, di colpo non lo erano più, almeno agli occhi degli investitori. Ed è a quel punto che le gambe hanno iniziato a tremare. La bassa crescita nominale del PIL rende qualsiasi processo di riduzione del debito lungo e complesso. A quanto pare non esistono soglie “fisse” d’indebitamento da non superare. Ma quello che è certo che, nel momento in cui scoppia una crisi, i Paesi più indebitati sono quelli più a rischio. L’evidenza empirica suggerisce che l’aumento eccessivo di debito privato (cioè di famiglie e imprese) aumenta il rischio di una crisi finanziaria, e i Paesi con una posizione fiscale (debito pubblico) non sufficientemente robusta sono quelli che pagano il prezzo più salato.
Come sostiene l’economista Richard Koo di Nomura, quando scoppia una crisi di debito, l’economia può entrare in una recessione patrimoniale: il settore privato preferisce minimizzare il debito anziché massimizzare il profitto (ciò riduce i consumi e l’economia reale) e chi non ha le risorse sufficienti a controbilanciare l’aggiustamento del settore privato soffre una crisi più lunga e profonda. Ciò spiega in parte le ragioni per cui l’Italia è stata tra i Paesi più colpiti dalla crisi della zona Euro e dall’affossamento del sistema bancario italiano.
I fallimenti fanno parte del gioco del capitalismo, e gli investitori vengono remunerati per questo. Fino ad ora la compressione dei rendimenti ha alleggerito il peso del debito (e congelato il rischio d’insolvenza), riducendo anche il premio al rischio. Tuttavia, l’avvio del processo di normalizzazione delle politiche monetarie apre un nuovo capitolo: cosa succederà alla prossima recessione? Questo è quello che si chiedono tutti gli analisti, ma è una situazione unica e non ci sono punti di riferimento: l’equilibrio tra rischio e valutazioni è sempre più precario.