Mentre le persone di tutto il mondo tentano di venire a patti con la nuova realtà che si è presentata improvvisamente come un’incubo stiamo alla finestra come tanti grandi artisti del passato che hanno comunicato i loro sentimenti per il mondo oltre le loro finestre – e, a volte, il loro senso di distacco da esso.
Chi non ha mai detto: “È bello guardare fuori dalle finestre”.
Un’osservazione che riveste un ruolo preciso ma anche perché contiene una profonda verità. Tutti sappiamo che le finestre di una casa sono state create per lasciar passare l’aria e la luce, ma è anche vero che hanno finito con il diventare dei veri e propri palcoscenici su cui sfilano l’ostentazione, il mistero, la finzione, la speranza del mondo.
Nei romanzi ambientati nel Medioevo sono cieche, sinistre o irraggiungibili. Nella poesia parlano ai sensi in modo allusivo, e l’occhio diventa la finestra dell’anima.
Nel linguaggio comune sono spesso protagoniste di locuzioni figurate, ad esempio: stare alla finestra; uscire dalla porta e rientrare dalla finestra; mangiare questa minestra o saltare dalla finestra. Difficilmente l’industria cinematografica sarebbe sopravvissuta senza finestre: pensiamo alla mano guantata alla maniglia, alle tende che sventolano nella notte rivelando la via della fuga; al vetro infranto da un criminale che fugge; alla sagoma che si delinea contro la tendina sotto lo sguardo vigile dell’uomo appostato dall’altra parte della strada.
Le finestre sembrano esercitare una sosta di magnetismo sulle cose, e spesso si trasformano in vetrine dove viene esposto un campionario della vita di chi abita dietro di esse; oppure possono essere i luoghi dove volgere il pensiero all’infinito.
Chi non ricorda le finestre della scuola. In primavera entrava in classe un’aria piena di lusinghe. In tardo autunno, le prime avvisaglie di neve evocavano il profumo degli alberi di Natale e le luci accese nelle case. Le finestre della scuola attirano e confinano, promettono e negano. Sono lastre di vetro sulle quali le farfalle delle speranze giovanili scandiscono con il loro battito il passare degli anni.
Le finestre viste di notte sono come fotogrammi di un film: istantanee animate. Spesso, invece, nella storia dell’arte le finestre sono state non solo un mezzo per illuminare il soggetto, ma il soggetto stesso per consentire all’osservatore di abbracciare con un unico colpo d’occhio il dipinto, Leonardo incorniciò nel Cenacolo Gesù e i discepoli che gli stavano accanto in una finestra e una porta.
Le finestre hanno trovato per lungo tempo anche un posto nelle credenze popolari, come nel sapere che se si lavano pioverà. Ma anche un vetro sporco ha i suoi vantaggi, perché ci permette di scoprire quanto siano brillanti i colori del mondo esterno quando si lascerà la casa. Spesso i vetri di una casa sono sporchi anche perché siamo noi che vogliamo vedere quello che ci comoda.
Oggi però le finestre sono lo sguardo all’infinito, sono gli argini di un fiume in piena, sono il limite invalicabile. Al di là il silenzio, il giorno che diventa notte senza poter parteciparvi, il futuro che ci appare incerto, la vita che si china alla stanchezza. E solo ieri erano le finestre sul mondo.
Molti sono gli artisti che sono stati alle finestre per far correre lontano il loro sguardo, il loro pensiero o il loro stato d’animo del momento, ecco tre esempi (fonte Christie’s):
Ogni giorno per gli ultimi due decenni della sua vita, Pierre Bonnard (1867-1947) e sua moglie Marthe hanno fatto colazione e pranzo nel salottino al secondo piano della loro modesta villa, Le Bosquet (“The Grove”), con vista la baia di Cannes. La coppia acquistò la casa nel 1926, quando l’artista aveva quasi 60 anni e Bonnard creò questo dipinto l’anno successivo.
Carl Vilhelm Holsøe (1863-1935), come il suo contemporaneo Vilhelm Hammershøi, era noto per i suoi interni radi e tranquilli che ricordano l’introspezione e l’eternità. Contrariamente a Hammershøi, che spesso utilizzava una finestra chiusa per chiudere simbolicamente il mondo esterno, Holsøe presenta una porta aperta in questo dipinto con una visione completa del giardino soleggiato, invitando l’esterno.
Dopo la morte del padre architetto, Ernst L. Freud – lui stesso il quarto figlio di Sigmund Freud – nel 1970, Lucian Freud (1922-2011) iniziò a dipingere case a schiera e fabbriche. A Waste Ground, Paddington, creato nello stesso anno, Freud ha raffigurato i detriti fuori dalla finestra dello studio con lo stesso scrupoloso esame che ha applicato ai suoi nudi e ai suoi ritratti.
Immagine di copertina: Edward Hopper Room in Brooklyn, 1932